Risparmio gestito – Un commento al trimestre, seconda parte

Non è questa la sede per tentare una analisi approfondita della condizione finanziaria delle banche o delle misure appropriate per un ritorno della fiducia e della stabilità al sistema e per una ripresa dei flussi creditizi con spread ragionevoli verso coloro che hanno un adeguato rating del credito. Ci sono alcuni punti importanti che vogliamo illustrare, anche se mirano soltanto a informare i nostri clienti e i nostri azionisti su come la pensiamo riguardo a questi argomenti.

Cominciamo dalle banche. Le banche, in generale, svolgono l’attività di raccolta di asset liquidi a breve termine sotto forma di depositi che trasformano in asset illiquidi a lungo termine sotto forma di prestiti. Non solo ricevono i nostri asset liquidi e li fanno diventare illiquidi (trattenendo ovviamente la liquidità necessaria per fare fronte alla richiesta anticipata di contanti da parte dei depositanti) ma emettono prestiti per un ammontare che diventa ben superiore al capitale sottostante se un alto numero di prestiti diventa inesigibile. Il rapporto prestiti/capitale è di 10 a 1. Dal momento che gli asset sono 10 volte il capitale sottostante, non occorre altro che l’aritmetica elementare per concludere che se il valore degli asset detenuti dalla banca scende di più del 10% in media, la banca diventa “insolvente” (le virgolette indicano il fatto che coloro che ritengono necessario un qualche tipo di nazionalizzazione hanno finito per rendere confuse le varie accezioni del termine “insolvente”). L’anno scorso, lo S&P 500 ha ceduto il 38%, una percentuale che riflette quanto gli asset delle banche sono scesi sulla base di una quotazione di mercato (mark-to-market ), ergo il sistema è insolvente: o si nazionalizza oppure ha bisogno di, diciamo, circa mille miliardi di capitale fresco (che è stata anche la stima di un analista del settore bancario la scorsa settimana).

Quand’ero all’università, più di trent’anni fa ormai, avevo un professore che ogni tanto accanto a un ragionamento che io ritenevo intelligente scriveva: “EAASFC?” (“E allora, anche se fosse così?”), un acronimo che potrebbe essere calzante nel caso dell’insolvenza. Spesso, chi sostiene l’argomento dell’insolvenza parla di un sistema bancario “tecnicamente insolvente”, un concetto sul quale viene da chiedere: “e allora?”. Il concetto di insolvenza, nella sua accezione tradizionale, vuol dire che non si hanno i mezzi per adempiere ai propri obblighi quando questi arrivano a scadenza. Questo però non è il caso del sistema bancario visto nel suo insieme né lo è per le banche più importanti. Le banche, difatti, hanno contanti in abbondanza, generati dai  depositi e contano su più di 800 miliardi di riserve depositati presso la Fed. Le grandi banche che recentemente hanno comunicato i risultati presentano, per la maggior parte, bilanci positivi (Wells Fargo ha registrato dei profitti record) e hanno migliorato i propri capital ratio. Non sorprende quindi che gli stessi analisti che si attendevano dalle banche una relazione trimestrale in perdita, abbiano dato poco peso a questi utili attribuendoli a ricavi una tantum, a condizioni di mercato straordinarie (spread molto ampi) e a ricavi contabili. Naturalmente, l’anno scorso, erano state considerate invece molto reali le notevoli perdite causate da queste stesse condizioni.

È curioso che coloro che tanto si sono preoccupati per le condizioni finanziarie delle banche abbiano deciso di dare più peso alle pratiche contabili che alla realtà economica. Le pratiche contabili hanno come scopo quello di presentare le condizioni finanziarie di una attività, ma non sono le condizioni in quanto tali: le riflettono soltanto. Le condizioni finanziarie di una banca dipendono dalla fiducia e dai flussi di cassa. I flussi di cassa sono robusti e la liquidità nel sistema abbonda quanto mai prima: quello che occorre è essere chiari riguardo alla rendicontazione.

Si consideri la questione del “mark-to-market” che tante controversie ha suscitato. Chi ne è a favore sostiene che dia un contributo alla trasparenza e aiuti a mostrare le vere condizioni finanziarie di un istituto. Chi ne è contrario sostiene che la rendicontazione secondo la quotazione che il mercato attribuisce agli oggetti non assolve a questa funzione ma che, al contrario, crea confusione tra la quotazione del mercato e il valore sottostante e genera una volatilità inutile e ulteriore confusione nei prospetti finanziari.
L’ironia è che ci siamo già passati: negli anni Trenta, quando per buona parte del decennio le banche contabilizzarono il valore dei propri asset secondo le quotazioni del mercato, furono usati gli stessi argomenti. Con la caduta del valore degli asset, i depositanti fuggirono, le banche crollarono e la depressione si prolungò. Nel luglio 1938, il bollettino della Federal Reserve annunciò che era stata sospeso il mark-to-market e che gli asset delle banche sarebbero stati valutati sulla base del loro livello di
solidità e di sicurezza a lungo termine, e non delle fluttuanti quotazioni quotidiane del mercato. Fu allora che venne introdotta la regola dell’incremento in base alla quale la vendita allo scoperto di un titolo può essere eseguita soltanto all’uptick superiore. Che si tratti o meno di una coincidenza, queste due misure politiche coincisero con la fine del terribile periodo ribassista del 1937-1938. Oggi è curioso come l’allentamento della norma contabile del mark-to-market da qualche settimana a questa parte e l’annuncio di una possibile introduzione di una misura analoga a quella dell’uptick abbiano coinciso con il fondo di questo mercato ribassista. Le politiche e le norme hanno un loro peso.


Ancora un paio di riflessioni sul mark-to-market. Presentare i valori di mercato, o i valori di mercato stimati, è positivo per gli asset, non lo è invece chiedere alle banche di regolare conseguentemente il rapporto del capitale di garanzia. Tralasciando l’attuale controversia, ogni qualvolta saremo in presenza di un’altra bolla degli asset o di una esuberanza irrazionale, le banche dovranno contabilizzare i loro asset maggiorati, senza considerare quanto possano essere sovraquotati in maniera assurda. Inoltre, dobbiamo dedurre che i ribassisti cercheranno solo quegli asset che utilizzano una quotazione di mercato che può essere corretta al ribasso. Nessuno si sta facendo avanti, per esempio, per chiedere che siano valutati al rialzo quegli edifici costruiti qualche anno fa o qualche decennio fa, il cui valore sulla carta supera di gran lunga quello reale (come è il caso dell’edificio che ospitava i quartier generale di Bear Stearns). E nessuno ha mai suggerito i depositi delle principali banche debbano essere valutati con il mark to market, perché questo comporterebbe per queste banche incrementi del capitale nell’ordine di miliardi di dollari (tralasciando il fatto che nei bilanci i depositi risultano come passività, un altro motivo del perché le pratiche contabili non possono essere prese alla lettera come specchio fedele della realtà economica).

Infine, vediamo gli stress test i cui risultati saranno disponibili a giorni. Questo mal congegnato piano è stato concepito, così spiega chi l’ha proposto, per instillare fiducia nel sistema. Finora ha creato solo confusione, peraltro spiegabile. Innanzitutto, le banche sono sottoposte a stress test in continuazione e li eseguono assieme ai regolatori, come ha spiegato Dick Kovacevich di Wells Fargo. Nel migliore dei casi sono quindi inutili. Secondo, è chiaro che tutte le 19 banche più importanti sono ben capitalizzate in ottemperanza alle norme in vigore, come ha ricordato Sheila Bair, che guida la FDIC. Anzi, la maggior parte detiene capitali di garanzia ben superiori a quelli richiesti dalle normative (anche la molto criticata Citibank). I test tuttavia sono stati concepiti per evidenziare eventuali carenze nella capitalizzazione in scenari economici ben peggiori di quelli che at
tualmente si prevedono. Dato che l’attuale situazione è la peggiore dal tempo della Depressione, quella attuale può essere considerata una situazione già molto seria. Il principale difetto di concezione sta nel fatto che ha portato il governo alla conclusione che le banche, che attualmente sono ben capitalizzate, dovranno integrare la propria capitalizzazione per affrontare un eventuale peggioramento della situazione, al fine di avere un ammortizzatore addizionale, o almeno così si dice.
Questo incremento del capitale però va nel senso sbagliato. Quello logico sarebbe che qualora la crisi peggiorasse sensibilmente e le banche si trovassero con garanzie di capitale troppo basse provvedessero allora a ricapitalizzarsi. E che se non fossero in grado di farlo privatamente, il governo intervenisse con altro capitale diluendo, forse anche in maniera consistente, il valore dei titoli azionari. Questa diluizione preventiva invece si avvicina molto all’entrarne in possesso, cosa che ha dato risultati disastrosi con le GSE.

C’è un altro argomento rispetto al quale l’azione politica sta procedendo nel senso sbagliato. La ricapitalizzazione dovrebbe avvenire nei periodi positivi e consumarsi in quelli negativi. Imporre una ricapitalizzazione preventiva crea incentivi non virtuosi che lavorano contro gli obiettivi politici. Il modo più semplice per ricapitalizzare le banche non è quello di concedere loro dei prestiti, bensì quello di costringere chi ha contratto dei debiti a ripagarli alla scadenza. Se la caduta del valore degli asset scende mentre migliorano le garanzie di capitale, la situazione peggiora per tutti perché a causa del credito non disponibile l’economia retrocede. Keynes aveva segnalato questo aspetto negli anni Trenta: alcune azioni sono razionali se viste singolarmente, ma possono rivelarsi irrazionali se viste nell’insieme.

È stato scritto che gli stress test servono anche a verificare se le banche abbiano il tipo “giusto” di capitale o, in altre parole, a verificare ilTangible Common Equity (TCE) ratio, un tasso che indica il valore totale che si otterrebbe se una società fosse liquidata. Questa nuova misura non è coerente dal punto di vista concettuale, nonostante ora sia considerata, dagli analisti ribassisti e dagli hedge fund che guadagnano dal crollo del valore dei titoli, lo standard aureo del capitale. Dal quadro che emerge, sembra che le autorità di regolamentazione siano state convinte che è importante. Invece è poco intelligente. Chi ne è a favore dice che le azioni ordinarie costituiscono la prima linea di difesa contro le perdite. Altri titoli, quali le azioni privilegiate acquistate dal governo con il denaro del piano TARP (Troubled Assets Relief Program) non sarebbero altrettanto efficaci. Eppure sono titoli quanto i primi e i contanti che il governo ha sborsato in cambio di azioni privilegiate avrebbero potuto essere scambiati con azioni ordinarie, ma il governo voleva che i contribuenti avessero una posizione di maggior peso rispetto ai detentori di azioni ordinarie, cosa che è apparsa sensata e tale appare ancora oggi.

Ora invece si sostiene che le azioni privilegiate dovrebbero essere convertite in azioni ordinarie, in quanto ciò sarebbe “meglio”. Nessuno sembra tuttavia notare che spostando il possesso dalle azioni privilegiate a quelle ordinarie non si crea nuovo capitale, ma si fa soltanto una diversa distribuzione dei titoli (i dividendi risparmiati creano capitale, ma solo in un secondo momento). Non si capisce quindi quale sarebbe il vantaggio economico o politico per il governo se si spostasse nella struttura del capitale da una posizione privilegiata a una subordinata, perdendo in questo processo anche dei dividendi cospicui. Non si creano nuovi mezzi propri. La tipologia della rendicontazione prevale sulla realtà economica. Si diluisce, questo sì, il valore dei titoli degli azionisti ordinari e si mette una zavorra al prezzo del titolo azionario, il che, naturalmente, è l’obiettivo di molti  tra quelli che spingono per questa soluzione.

Warren Buffett ha ricordato recentemente che lui non utilizza mai il TCE (e non dovrebbero farlo nemmeno in regolatori) e ha fatto l’esempio della Coca Cola che avrebbe un TCE molto basso, pur trattandosi di una compagnia finanziariamente forte e che produce consistenti profitti. Non si ricavano dei profitti dal valore totale delle azioni ordinarie, mentre è possibile guadagnare giocando sulla differenza tra il proprio costo del denaro e i ricavi sugli asset al netto delle perdite creditizie. Le perdite possono essere assorbite nelle banche anche tramite le riserve destinate alle insolvenze creditizie e tramite tutte le forme del capitale, non soltanto tramite il valore totale delle azioni ordinarie. Una politica coerente e ferma avrebbe lo stesso effetto. Cambiare le regole in modo tale che le banche appaiano più deboli di quello che sono o esigere una loro ricapitalizzazione quando non ne hanno bisogno sono politiche maldestre che distruggono la fiducia.

Questo commento si è prolungato ben oltre ciò che si intendeva e forse non è abbastanza buono, quindi mi fermo qui. Le riflessioni qui presentate sono veramente soltanto dei frammenti di argomenti molto più vasti e non è inteso che siano completi o esaurienti. Ritengo invece che indichino la direzione corretta.
Per quanto riguarda invece i mercati del capitale, prevedo che saranno volatili, ma in misura minore rispetto agli ultimi sei mesi. Gli spread del credito dovrebbero gradualmente ridursi e i prezzi delle azioni dovrebbero salire a mano a mano che l’economia si stabilizza, che il credito riprende a fluire e che la volatilità si abbassa. La mia previsione è che l’azionario statunitense potrebbe chiudere l’anno a un livello più alto rispetto a quello iniziale o forse molto più alto. Nel breve termine, dopo il progresso registrato nelle ultime sette settimane, non mi sorprenderebbe se si assistesse nuovamente a un momento di debolezza tale da generare timori sufficienti da porre nuovamente le basi per ulteriori guadagni.

I nostri portafogli, è bene ribadirlo ancora, non sono costruiti a partire dalle previsioni macroeconomiche o dalle aspettative sulla direzione che i mercati azionari prenderanno nei prossimi mesi. Sono costruiti basandosi su considerazioni di lungo periodo utilizzando un approccio value. Questo significa che crediamo che l’economia e il mercato cresceranno nei prossimi anni, che lo facciano o no nell’anno in corso, e che le aziende avranno dei rendimenti sul capitale sostanziosi secondo il loro vantaggio competitivo, il contesto economico delle singole attività e le capacità del loro management.
Dopo tre anni nei quali nei mercati è prevalsa dapprima una grande spinta all’insù per i prezzi e successivamente il panico, si riscopre nuovamente che il valore ha un suo peso, come lo ha avuto nel passato per il 70 o l’80% del tempo. Coerente con questa idea, il nostro portafoglio ha cominciato a sovraperformare. Con la stabilizzazione dell’economia americana e di quella mondiale, dovrebbe attenuarsi anche l’avversione al rischio e nei mercati del credito e azionari dovrebbero ritornare i capitali. Ciò si rivelerà positivo per le strategie basate sul valore e sono fiducioso che i nostri risultati rifletteranno il valore inerente del nostro portafoglio.

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