Caccia al Bund. Allora vendetelo

di Patrizio Pazzaglia

Il ritorno dalle vacanze degli investitori sui mercati azionari non sembra avvenire sotto i migliori auspici. I dati macro provenienti dagli Stati Uniti segnalano infatti un brusco rallentamento dell’economia a stelle e strisce, alle prese con un mercato del lavoro ancora asfittico e deficitario e con i principali indici di fiducia e manifatturieri in flessione e generalmente peggiori rispetto alle previsioni di consensus degli economisti. A fungere da contraltare alla frenata del ciclo americano è l’economia tedesca, vera macchina da guerra sul fronte delle esportazioni.

È di questi giorni la notizia che la Bundesbank preveda, qualora l’attuale tasso di sviluppo venisse confermato, una crescita del Pil intorno al 3% su base annua. Nonostante questo decoupling, le borse europee, compresa Francoforte, non sembrano riuscire a brillare di luce propria, preoccupate dalla debolezza di quello che va ancora considerato il principale mercato di sbocco dell’economia globale. Così può sembrare un paradosso che le quotazioni delle aziende tedesche non riescano a beneficiare degli utili previsti in crescita e della grande affidabilità riconosciuta dai mercati ai fondamentali del paese guidato, senza eccessivi consensi interni, da Angela Merkel. Così come può sembrare altrettanto paradossale che il dollaro americano si apprezzi contro l’euro, in considerazione di ragioni storiche che lo qualificherebbero quale valuta di “rifugio” nelle situazioni di incertezza o di difficoltà. È pur vero che la moneta unica sconta le turbolenze dei debiti sovrani dei paesi periferici ed una crescita disomogenea e a macchia di leopardo, ma è altrettanto vero che il deficit americano, considerando anche le passività delle agenzie federali, non si presenta affatto più virtuoso di quello medio dei cosiddetti Pigs di Eurolandia.

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