In cerca di equilibrio

La guerra della valute, come è stata definita, è ancora nel pieno del suo sviluppo e gli attori internazionali cercano con difficoltà di trovare vie d’uscita che evitino mosse unilaterali e stemperino tensioni.
Agli elementi di incertezza dovuti alla solita stagnazione dei consumi e all’elevata disoccupazione nei Paesi occidentali, come è noto, si è aggiunta una corsa alla svalutazione competitiva che ha avuto origine negli Stati Uniti.
La mancata uscita dalla crisi, anche se non aggravata dal temuto double dip, ha spinto le autorità di Washington a proseguire nell’immissione di liquidità con un secondo piano di quantitative easing (QE2). L’obiettivo, ammesso o no, dell’operazione, oltre che sostenere lo sviluppo interno e cercare di scongiurare la deflazione, è quello di indebolire il dollaro e rendere l’economia più competitiva sui mercati internazionali arginando l’aggressività commerciale di Cina, India e dei Paesi emergenti. L’effetto, cercato o meno che fosse, è stato evidente generando reazioni a catena da parte dei Paesi le cui valute sono oggetto di ingenti flussi di capitale in uscita dal dollaro. Questi ultimi, infatti, in varie forme, cercano di mantenere deboli le proprie monete temendo di perdere quella competitività sui prezzi che ritengono ancora fondamentale.
In questo contesto emerge la posizione, per ora immobile, dell’euro che, in assenza di politiche incisive di tipo valutario, risulta in forte rafforzamento e può mettere in difficoltà le economie continentali più deboli; i recenti rinnovati timori sui debiti sovrani da questo punto di vista sono positivi poiché stanno arginando la corsa della moneta unica.
Il G20 svoltosi a novembre aveva tra i compiti più importanti proprio quello di affrontare la gestione degli squilibri globali. Il peso crescente nell’economia di aree prima marginali (Asia e America Latina), le tensioni sui tassi di cambio e gli enormi squilibri nelle bilance commerciali non sono che facce della stessa medaglia che andrebbero risolti congiuntamente e in maniera concordata a livello globale. L’incontro tra i principali paesi industrializzati si è chiuso senza soluzioni complete ma prevalentemernte con generiche dichiarazioni di intenti. I paesi esportatori, Cina e Germania in testa, non hanno accettato, come inizialmente proposto dagli USA di porre dei limiti agli avanzi/disavanzi nelle partite correnti, mentre per quanto riguarda le valute non si è andati oltre a un impegno a non realizzare svalutazioni competitive concordando che i cambi devono riflettere i fondamentali delle economie. È stata però ulteriormente ratificata la crescente importanza dei paesi emergenti che avranno più peso in seno al Fondo Monetario Internazionale, ove verrà loro trasferito il 6% del potere di voto e 2 seggi nel consiglio dell’organismo ceduti dall’Europa (che ne aveva 8).
La consapevolezza ufficiale delle tensioni in atto è comunque un passo avanti importante e del resto esse rappresentano probabilmente ulteriori segni visibili della transizione più volte illustrata verso un sistema multipolare. Gli USA perdono progressivamente centralità e ruolo di traino nello sviluppo globale ma, specularmente, i Paesi in forte crescita e grandi esportatori (Cina ad esempio), non potranno continuare, contro la pressione dei mercati, a contenere la crescita delle proprie valute, così come dovranno per forza di cose aumentare la domanda interna riequilibrando automaticamente anche le relative bilance commerciali. Forse la pressione dei mercati sarà la soluzione automatica agli squilibri e agevolerà anche accordi ad essi conformi.
È in questo scenario, caratterizzato inoltre da dati macro senza elementi negativi di rilievo e costellato da indicazioni neutro positive, che riemergono timori sulla solvibilità dei Paesi europei periferici. Il FMI e le autorità europee si sono affrettate a garantire gli aiuti che si rendessero necessari all’Irlanda, il Paese in questo momento nell’occhio del ciclone, gli spread rispetto al bund tedesco sono nuovamente schizzati in alto e le analisi sui conti pubblici dei PIGS (l’Italia per ora non è coinvolta direttamente sebbene subisca l’aumento dei tassi richiesti per finanziare il debito).
I debiti pubblici già elevati e soprattutto i deficit da ridurre in un contesto di crescita così debole sono effettivamente da considerare particolarmente critici ma, almeno transitoriamente, possono servire a sostituire l’intervento sul mercato dei cambi che la BCE non sembra intenzionata a realizzare, calmierando l’euro e dando forse un po’ di ossigeno proprio alle economie più in difficoltà.

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