Nel 2013 pochi asset ma molto management

UNA SEQUENZA DI NUMERI FORTUNATI – Purtroppo non è dato sapere a quanto ammontano i profitti 2012 della premiata ditta Davidson, Lakoff e Skidmore. Questi tre signori, di professione gestori attivi nell’asset management, il 2 novembre del 2011 balzarono alle cronache d’America per aver centrato una sequenza di numeri fortunati: 2, 14, 3, 39, 46 e il jolly 36. Una sequenza che ha consentito loro di incassare, esentasse, la bellezza di 15,8 milioni di dollari, subito girati a un trust di loro proprietà. Una scelta che ha fatto sospettare che i tre altro non fossero che prestanomi di un quarto anonimo superfortunato. Comunque sia, sarebbe interessante capire la performance realizzata dai più fortunati gestori del mondo che ben si guardano, ovviamente, dal raccontare i fatti loro. Eppure, i risultati potrebbero gettare nuova luce su una questione assai dibattuta: conviene o meno affidarsi al tocco magico di un gestore? Si tratta di vera gloria? O le commissioni percepite dall’asset management non hanno un corrispettivo adeguato?

JOHN BOGLE –
A gettare benzina sul fuoco della questione è John Bogle, leggendario pioniere del risparmio gestito che sessant’anni fa diede vita a Vanguard, uno dei colossi del settore. Bogle, convinto assertore della gestione passiva tramite index fund a basso costo da lui inaugurata agli inizi degli anni ‘70, la vede così: “Una volta la nostra era una professione in cui c’erano alcuni elementi di marketing. Oggi è una macchina di marketing con una spruzzata di professionalità: non credo che i clienti ci abbiano guadagnato”. Per carità, Bogle, il Warren Buffett del gestito, può essere mosso da risentimenti personali verso un’industria che ha ormai assunto un passo ben diverso dai suoi tempi.

DUE CONSIDERAZIONI CHE FANNO RIFLETTERE
– Due considerazioni, però, fanno riflettere. Tanto per cominciare, un’analisi di Allison Forest, docente alla Wake University, attesta che i fondi dove i gestori hanno investito almeno 100mila dollari di tasca propria presentano una performance di 2,6 punti percentuali superiore agli altri. “Non sono in grado di tradurre questi dati in una regola definita”, commenta, “ma è un fatto che, a mano a mano che aumenta l’interesse personale del gestore per i risultati, la performance cresce”. O, quantomeno, diminuisce il turnover tra i titoli detenuti dai fondi. E si sa, meno compravendite vogliono dire meno commissioni. Non è facile, si sa, battere il benchmark, come certifica una recente indagine della britannica Lipper sulle gestioni attive. Rispetto al 2011, solo il 26,7% delle gestioni attive nei fondi azionari ha superato il benchmark. La percentuale però sale se si guarda alla classifica a tre anni (40%). Ma, ammonisce Ed Moisson, responsabile della ricerca di Lipper, le performance non bastano a individuare i migliori tra quei quattro gestori su dieci che hanno battuto la media del mercato. “È un problema complesso”, ammette, “perché bisogna tener conto di tante variabili e di differenti condizioni ambientali”. In particolare, i gestori attivi nell’azionario Europa e Regno Unito negli ultimi anni hanno fatto molto meglio (rapporto tre a uno) dei loro colleghi impegnati nel Nord America. Se si guarda al lungo termine, emerge il vantaggio competitivo delle gestioni attive negli investimenti sui listini asiatici (il 54,4% ha battuto il benchmark), mentre solo un gestore su quattro ha centrato il risultato in Europa. E addirittura solo uno su cinque in Nord America. Tutto questo aiuta a spiegare la difficoltà del sistema fondi rispetto al concorrente più temibile: gli etf.

IL SISTEMA DEGLI ETF – Il sistema degli equity mutual funds non registra un saldo positivo di sottoscrizioni dal 2005, in buona parte per la concorrenza degli etf che, per limitarci agli strumenti investiti su Wall Street, hanno raccolto 14,7 miliardi dollari nei primi undici mesi del 2012. Questi dati sono musica per le orecchie di molti manager, nel bersaglio dei fondi comuni per le alte paghe incassate. I fondi sono stati decisivi per bocciare la liquidazione di Vikram Pandit in Citigroup (15,4 milioni) al pari dei bonus dei manager di Trinity Mirror, Sly Bailey, Astra Zeneca o di Aviva, colpevoli di performance deludenti. Il boss di M&G Investments, Michael Mc Lintock, si è fatto pagare dal fondo (cioè dai sottoscrittori) uno stipendio di 7,4 milioni di sterline nel 2011. Il boss di Schroders, Michael Dobson, si è fermato a 5,4 milioni, davanti al numero uno di Aberdeen, Martin Gilbert, o ai leader di Henderson, Investec o di Pimco Europe, gratificato di una busta paga di 29,9 milioni di sterline. A che titolo, si chiede il Financial Times, questi gestori possono contestare la paga del ceo di Bailey, che si è accontentato di soli 1,3 milioni? In realtà, il fenomeno sta per essere corretto alla radice: ormai il 45% delle società di asset management paga i vertici sulla base dei risultati.

UN SETTORE A META’ DEL GUADO
– Resta il fatto che, alla fine del 2012, anno di ripresa per i mercati azionari ma di estrema volatilità sul fronte obbligazionario, il settore dell’asset management è ancora a metà del guado. Da una parte ci sono evidenti segnali di disaffezione. Nel corso dell’anno, Deutsche Bank ha tentato invano di vendere il proprio asset management. I tentativi da parte di UniCredit di piazzare Pioneer Investments sono finiti in un nulla di fatto. Ma c’è anche chi, come Ubs, ha deciso al contrario di ridurre gli sforzi nell’investment banking puntando sulla resurrezione dell’asset management. Scelta analoga per Goldman Sachs: sono tre volte di più i nuovi partner di Goldman in arrivo dall’asset management rispetto all’investment banking. Una scelta non casuale, perché “noi crediamo”, spiega un senior partner, “che la ripresa partirà da lì”. Chissà, forse ne beneficeranno anche le performance dei clienti.

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