Consultinvest: l’Opec e il ritorno dell’inflazione

CORREZIONE SECOLARE – Non sappiamo se il prossimo novembre l’Opec riuscirà a trovare un accordo che porti ad un efficace taglio della produzione petrolifera mondiale. Tuttavia crediamo che la grande correzione secolare nei prezzi delle materie prime abbia già espresso una drastica riduzione degli investimenti necessari a mantenere elevata la produzione e che, a meno di una pericolosa ricaduta recessiva che oggi non pare probabile, il prezzo di mercato del petrolio dovrebbe aver visto i minimi pluriennali intorno ai 40$ al barile, spiega una nota di Consultinvest, la società guidata da Maurizio Vitolo. Se avremo avuto ragione in questa previsione, potrebbe venire meno uno dei principali fattori che nelle principali economie sviluppate hanno contribuito a mantenere bassa l’inflazione negli ultimi due anni. Infatti i ribassi petroliferi hanno tolto importanti incrementi mensili all’indice dei prezzi al Consumo e hanno attenuato l’impatto che in altri generi merceologici è stato anche significativo: ad esempio nei servizi alla salute, nei divertimenti e in alcuni casi negli affitti.

ANDAMENTO DINAMICO – Nei prossimi mesi quindi potremo vedere tassi annui di variazione degli indici di prezzi al consumo più dinamici rispetto al recente passato, soprattutto in quelle economie dove il mercato del lavoro e le retribuzioni stanno dando segnali di ripresa: segnatamente gli Usa e la GB, dove anche il deprezzamento della sterlina darà i suoi contributi. Non a caso negli Usa la differenza tra i tasso annuale di crescita dei prezzi al consumo complessivamente considerati ha ridotto la distanza dalla misura che esclude i costi energetici: siamo passati da un differenziale annuo di 1.63% del luglio 2015 al 1,26% di agosto 2016. Ricordiamo che il tasso annuale di crescita dei prezzi al consumo depurati dai generi alimentari e dei prodotti energetici negli USA in agosto è salito al 2.3%. Nella zona euro, invece, il riavvicinamento è stato di misura inferiore, dal 0.7% di agosto 2015 al 0.6% di agosto 2016, ma soprattutto è suoi livelli sono ancora molto bassi: l’inflazione annua depurata dai generi alimentari e dei prodotti energetici è al +0.8%. Le banche centrali (Fed, BoJ, Bce e Boe) si aspettano questo fenomeno di ripresa e, più o meno tutte, hanno avvisato che i tassi annui d’inflazione potranno subire una graduale ripresa nei prossimi mesi, contribuendo ad attenuare le paure deflazionistiche. Rimane da vedere la portata di questa ripresa e soprattutto la sua sostenibilità. Come detto, crediamo che questo trend di riavvicinamento tra indici di inflazione possa essere più marcato e sostenibile per quelle economie i cui fondamentali sono più solidi sul fronte occupazionale e della dinamica salariale. Ovvero dove la ripresa della pressione salariale ha maggiori possibilità di contrastare la compressione del reddito disponibile delle Famiglie in termini reali che potrebbe determinarsi comprimendo gli attuali livelli di spesa per consumi. Probabilmente gli Usa, e forse anche la GB, sono quelli dove questo fenomeno di ripresa rischia di essere più marcato e sostenibile, prosegue la nota. Nella zona euro la sua sostenibilità è ancora in dubbio. La deflazione dei prezzi energetici vista negli ultimi due anni ha liberato risorse a livello di reddito disponibile reale – penalizzato da modestissime prospettive di recupero salariale e del mercato del lavoro e schiacciato dalla pressione fiscale – che hanno aiutato a mantenere moderatamente positiva la spesa per consumi. Temiamo che nella zona euro se ci sarà la ripresina dell’inflazione questa possa essere quello più deleteria per i livelli di domanda finale privata.

PRESSIONE SULLA FED – La maggiore dinamicità dell’inflazione ha importanti implicazioni sia per la Fed, che a questo punto potrebbe sentire sempre più forte la pressione per rialzare i tassi a dicembre se non prima, che per il mercato obbligazionario Usa e poi al traino anche per quello europeo. Gli investitori iniziano a rendersi conto di questo sviluppo e guardano con sempre maggiore interesse ai titoli legati all’inflazione, soprattutto quelli con scadenze brevi e intermedie, dove l’ipotesi di un rimbalzo dell’inflazione non era affatto prezzato. Negli Usa il prezzo del governativo a 2 anni legato all’inflazione è salito di quasi un 1%, incorporando un rialzo futuro dell’inflazione di ben 35bps nel solo mese di settembre. Il prezzo di quello a 10 anni è salito del 2.8% incorporando un aumento di 0.12%. Nell’area euro, invece, per le ragioni addotte il fenomeno è meno marcato ma non del tutto negletto: infatti constatiamo l’esistenza di un ritorno di interesse su questa tipologia di titoli. Ad esempio sui Btp dove il 3.1% 2026 legato all’inflazione ha ridotto il proprio differenziale di rendimento nominale di 12bps negli ultimi due mesi rispetto al suo equivalente Btp “normale”. Ecco allora che nel triste panorama del mercato obbligazionario dove il rendimento non esiste più, le obbligazioni legate all’inflazione possono rivelarsi validi strumenti per posizionarsi in questo nuovo scenario con investimenti più difensivi e potenzialmente persino più performanti, conclude la nota di Consultinvest.

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