Carmignac, il punto della settimana sui mercati (11 – 15 maggio 2020)

Vi proponiamo di seguito il commento settimanale a cura di Carmignac. Buona lettura.

La mancanza di ampiezza è una delle principali problematiche del mercato. Solo il 17% dei titoli dello S&P è scambiato al di sopra della media mobile di 200 giorni, nonostante l’inusuale rally del 25% riportato in otto settimane. La sovraperformance del Nasdaq, abbastanza piatta rispetto all’anno precedente, è ovviamente responsabile di questo fenomeno. Adesso però dobbiamo chiederci se può essere pericoloso e quanto durerà.

È opportuno avere una forte diversificazione ed è proprio in base a questo assunto che abbiamo costruito i nostri portafogli. Per citare Keynes, in questo mondo di estrema incertezza, con i tassi di interesse che resteranno bassi nel prossimo futuro, il numero delle aziende con un’elevata visibilità dei risultati e un potenziale di crescita nel lungo termine è destinato ad essere sempre più esiguo e, di conseguenza, queste realtà meritano un premio elevato. Al contrario, le aziende più fragili – ovvero quelle che si sono indebitate, il miglior modo per perdere flessibilità in un periodo di crisi – e sensibili ai cambiamenti macroeconomici saranno le più colpite. Siamo fiduciosi del fatto che la nostra strategia di stock selection da un lato ci permetterà di investire nei titoli migliori, dall’altro creerà molta fragilità sui mercati in quanto punta solo su un numero esiguo di aziende. Inoltre, la qualità può sfidare la gravità solo se il mercato ritiene che l’economia non stia entrando in una profonda e lunga fase di recessione. Non dimentichiamo che nel 2007 c’è stata una discrepanza simile e la crisi del 2008 ha fatto crollare tutto.

Cosa c’è di diverso oggi? In primo luogo, è chiaro che i grandi nomi del comparto tecnologico sono altamente redditizi e, proprio per questo motivo, le valutazioni sono molto più ragionevoli rispetto a 10 anni fa. In secondo luogo, questa volta le banche centrali si sono mosse rapidamente per evitare una crisi duratura. Nessuno era pronto per la pandemia, ma sicuramente le banche centrali erano pronte a difendere i mercati, perché è quello che fanno ininterrottamente da 10 anni.

In effetti, per oltre un decennio i policy maker sono riusciti a evitare qualsiasi grave recessione, intervenendo ogni volta che insorgeva una minaccia reale. La difesa dei mercati è un sottoprodotto dell’imperativo di evitare le recessioni. L’ultimo esempio è ovviamente il 2019. I policy maker sono costretti a intervenire ogni volta perché comprendono perfettamente che una grande recessione che colpisca le economie e le aziende con un’elevata leva finanziaria avrebbe degli impatti micidiali. Inoltre, visto che i policy maker hanno un maggior controllo sui mercati che sull’economia reale, la decisione migliore è sempre stata quella di spingere al rialzo i prezzi degli asset finanziari, in modo da allentare le condizioni finanziarie, difendere la ricchezza complessiva e mantenere elevati i consumi. Per 10 anni lo strumento politico più efficace utilizzato dalle banche centrali è stato quello di mantenere solide le fondamenta dei mercati.

Anche questa volta, i policy maker hanno utilizzato massicciamente il loro strumento politico preferito e gli investitori sono stati ben protetti. Adesso verranno acquistati anche gli ETF obbligazionari corporate e le azioni saranno certamente le prossime, se necessario. Questi sono stati, e sono ora più mai, che dei “mercati gestiti”. Da anni la formula più affidabile per il successo è “non combattere la Fed”.

Bisogna quindi chiedersi se queste misure saranno sufficienti anche questa volta, dato che i policy maker le stanno utilizzando ormai da molto tempo, e l’attuale shock economico ha una portata straordinaria. È proprio da questo shock economico che scaturisce una radicale incertezza, in quanto prendere una decisione in ambito economico equivale a prendere una decisione relativa al virus. Non ci sono certezze.

Nel breve termine è possibile che la domanda repressa nell’ultimo periodo favorisca una ripresa economica nei prossimi mesi, anche se non è detto che questo avvenga, poiché la spesa dei consumatori si basa sulla fiducia, sulla salute o sul mercato del lavoro piuttosto che sulle decisioni dei governi. Prendiamo l’esempio di Taiwan o della Svezia, paesi con pochi morti per via del coronavirus e dove le attività economiche non sono mai state interrotte, ma che hanno comunque assistito a una notevole diminuzione dei consumi. È evidente che la mancanza di misure di lockdown non si traduce necessariamente in una ripresa vigorosa della spesa dei consumatori, per non parlare poi del rischio di una seconda ondata di contagi.

Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione rappresenta ovviamente un’ulteriore preoccupazione. Ci aspettiamo che il dato raggiunga presto il 25%, livello riportato durante la Grande Depressione. Ovviamente, una volta raggiunto questo picco, il tasso scenderà rapidamente, poiché la flessibilità sul mondo del lavoro funziona in entrambi i sensi, ma non significa che l’evoluzione sarà simmetrica: ci vorrà probabilmente molto tempo prima che la disoccupazione torni ai livelli pre-Covid, per cui è probabile che la fiducia dei consumatori diminuisca e che il tasso di risparmio rimanga elevato. Questo riguarda i consumi, ma probabilmente anche i prezzi delle unità immobiliari, con un rischio di feedback loop sull’effetto ricchezza. In Europa gli ammortizzatori sociali sono più potenti, ma psicologicamente i problemi sono gli stessi  e la disoccupazione parte naturalmente da un livello molto più alto rispetto a quello degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda le spese in conto capitale e le esportazioni, è necessario ricordare quali erano i trend prevalenti prima della crisi: i margini delle imprese erano mediamente in calo, e il commercio globale nel 2019 è diminuito dello 0,5%, quando normalmente cresce a un ritmo di 2-3 volte superiore a quello della crescita del PIL. In altre parole, il momentum economico era già debole, quindi l’idea di una cosiddetta ripresa a “V” ci è sembrata fin da subito molto poco realistica e la possibilità di una recessione prolungata non è del tutto da escludere.

In conclusione possiamo affermare che il mondo occidentale vivrà uno scenario simile a quello del Giappone, con bassa crescita, bassi tassi di interesse perpetui e ampia offerta di liquidità: un contesto in cui gli indici azionari possono scambiare senza particolari variazioni al rialzo o al ribasso, mentre i titoli growth di elevata qualità continueranno a sovraperformare. Questo è lo scenario di base che giustifica la nostra allocation settoriale nei fondi globali. Ma il rischio macroeconomico, a nostro avviso, è più orientato al ribasso, in quanto gli economisti potrebbero sopravvalutare la ripresa economica al di là del sollievo iniziale nel breve termine, e potremmo andare incontro a una recessione prolungata. In tal caso, sarebbe messa in discussione la capacità delle banche centrali di continuare a gestire i mercati, che potrebbero essere nuovamente destabilizzati in modo significativo. Proprio questa asimmetria del rischio spiega perché manteniamo una posizione complessivamente cauta nonostante il rally dei mercati.

 

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