Mercati, investire nell’era della repressione finanziaria

Di seguito un intervento di Giordano Lombardo, Founder e CEO Plenisfer Investments SGR, dal titolo: “Investire nell’era della repressione finanziaria”.

Un nuovo scenario di rischio inflazionistico è alle porte. Tuttavia, gli investitori sembrano pensare che tutto andrà bene, perchè le banche centrali continueranno a correre in loro soccorso. Ma sarà davvero così? Crediamo che l’esito finale non sia ancora scritto e che le potenziali vie d’uscita dalla situazione economica postpandemia dipenderanno dal percorso che verrà intrapreso dai diversi attori (per usare il linguaggio degli economisti: gli scenari futuri sono “path dependent”). In questo contesto sarà estremamente difficile ottenere rendimenti soddisfacenti dagli investimenti. Gli investitori dovranno essere flessibili e fare meno affidamento sui “beta” di mercato rispetto al passato.

Il mondo sta diventando inflazionistico?
Le ragioni per attendersi un nuovo contesto inflazionistico sono complesse. Dopo 12 anni di misure straordinarie delle banche centrali, un diverso tipo di politica economica, essenziale per affrontare le conseguenze economiche della crisi Covid, era inevitabile. Erano necessari cambiamenti radicali. La novità più rilevante è stata il passaggio dall’uso quasi esclusivo della politica monetaria come strumento di policy a una convergenza della politica fiscale e di quella monetaria su una scala che non si era mai vista nella storia (o almeno in quella moderna). È stato questo il vero “game-changer”. La combinazione di creazione di moneta su scala straordinaria, combinata con deficit pubblici senza precedenti in tempi di pace, è diventata la nuova prassi di intervento, almeno nelle economie occidentali. E’ però anche una ricetta da manuale per un aumento delle pressioni inflazionistiche. Ci sono attualmente due visioni antitetiche sul tema dell’inflazione. Quelli che credono che sia inevitabile e quelli che credono che non si materializzerà affatto. L’argomento principale contro l’inflazione è che il mondo è ancora afflitto da un enorme divario tra l’output potenziale e quello effettivo, con conseguente elevata disoccupazione. I sostenitori di una previsione di “inflazione bassa più a lungo” dicono che il “Quantitative Easing infinito” sperimentato finora non è riuscito a generare nessuna inflazione apprezzabile, perché erano in atto delle forti spinte deflazionistiche strutturali: 1) una situazione demografica che ha visto in età lavorativa una generazione numericamente molto grande (i “baby boomers”) negli ultimi trent’anni; 2) una forte crescita della produttività guidata dalle tecnologie digitali; 3) l’ingresso della Cina nel sistema commerciale globale.

Inoltre, nel 2020, il tasso di risparmio nella maggior parte dei paesi è fortemente aumentato a causa dell’incertezza generata dalla crisi del COVID19. Il protrarsi degli effetti della crisi economica e della relativa incertezza potrebbero rendere permanente almeno una parte di questa impennata nella propensione al risparmio. In questo caso, uno scenario inflazionistico sarebbe davvero una minaccia remota. L’argomento opposto è che queste forze strutturali, sebbene significative in passato, stanno andando progressivamente ad affievolirsi. Il processo di globalizzazione delle “supply chain” si stava già invertendo prima della crisi, a seguito delle tensioni geopolitiche, soprattutto tra USA e Cina. Gli effetti deflazionistici connessi alle nuove tecnologie sono destinati piano piano ad esaurirsi. Alcuni economisti (ad esempio Goodhart e Pradhan₁) sostengono che anche l’impatto disinflazionistico connesso ai trend demografici sia destinato ad invertirsi, a causa dell’uscita dal mondo del lavoro della generazione dei baby boomers. Dal nostro punto di vista, l’argomento che conta davvero a favore di un’accelerazione inflazionistica è tuttavia di natura politica: data l’enormità del debito totale che abbiamo accumulato nell’economia globale, l’inflazione è diventata un’opzione politicamente desiderabile. Infatti, un’espansione senza vincoli dei deficit pubblici, finanziata dalle banche centrali, sta diventando una teoria anti-crisi ampiamente accettata nei processi di policy making del mondo occidentale (è peraltro ciò che sostengono i propugnatori della cosiddetta “teoria monetaria moderna”). Viene argomentato che l’attuale gigantesca dimensione dei debiti, pubblici e privati, potrà essere gestibile solo tenendone i costi molto bassi, grazie ad un tasso di interesse reale pari a zero o negativo. È quindi plausibile che i governi di diversi paesi assumano un atteggiamento benevolo nei confronti dell’inflazione come strumento di riduzione del debito, semplicemente perché l’alternativa (default o ristrutturazione) sarebbe molto peggiore. E perché l’alternativa “buona”, ossia un aumento del saggio di crescita reale, è alquanto difficile da realizzare in presenza di un calo strutturale della produttività.

Questo implica, ovviamente, un’aspettativa sfavorevole per i titoli obbligazionari. E qui entra in gioco la seconda parte del ragionamento di chi confida nel ruolo salvifico delle banche centrali. Ossia la “repressione finanziaria”. Secondo questa tesi, lo scenario di un forte aumento del premio per il rischio di inflazione, con conseguente netto ribasso dei prezzi dei bond, sarebbe scongiurato grazie al cosiddetto “controllo della curva dei rendimenti”. Di fronte alle evidenze di un’effettiva accelerazione della dinamica dei prezzi, si dice, le banche centrali interverrebbero per tenere sotto controllo la parte a lungo termine della curva dei rendimenti, seguendo l’esempio del Giappone nel recente passato. Peraltro, i detentori di obbligazioni che continuassero a mantenerle in portafoglio in virtù di rendimenti nominali mantenuti artificialmente “stabili”, subirebbero una lenta erosione del valore in termini reali (la “repressione”). È una politica già sperimentata negli anni ’50 e ‘60, sia pure in presenza di tassi nominali ben più alti di quelli odierni. In questo scenario non si dovrebbero invece registrare grandi problemi per le asset class più rischiose, come le azioni, che continuerebbero ad essere favorite dalla “ricerca di rendimento” dovuta ai tassi reali negativi. Non siamo convinti che le cose andranno esattamente così. La vera domanda è come gli investitori (e le autorità monetarie) saranno in grado di distinguere tra un moderato aumento dell’inflazione che porta a uno scenario “ottimale” rappresentato da un tasso di inflazione “accettabile” e una crescita dell’inflazione molto più preoccupante. O addirittura pericolosa, come un’inflazione in stile anni ’70. È probabile anzi che quando l’inflazione salirà sopra una certa soglia (attualmente sconosciuta: 3%, 4%, 5%?), gli investitori diventeranno sempre più nervosi e cercheranno di anticipare l’accelerazione dell’inflazione avviando un esodo epocale dalle obbligazioni. In alternativa, l’aggiustamento potrebbe avvenire attraverso la svalutazione delle valute di quei paesi impegnati nel “controllo” della curva dei rendimenti. Sarà tutta una questione di aspettative e di fiducia, i cui esiti non sono affatto scontati. Come abbiamo detto, non esiste un finale predeterminato. Molto dipenderà dall’interdipendenza tra le azioni e reazioni delle banche centrali e degli operatori del mercato.

L’opportunità per gli asset manager
Ma non è solo una questione a breve termine. A causa delle politiche non convenzionali degli ultimi 12 anni, i rendimenti prospettici di tutte le asset class si sono drasticamente ridotti. Ciò aggrava il problema che gli investitori devono oggi affrontare poiché la maggior parte dei sistemi pensionistici sono largamente sottofinanziati e il rischio di investimento con finalità pensionistiche è stato progressivamente, in oltre 40 anni, trasferito dai governi e dalle imprese sui risparmiatori privati. Se il mondo in cui stiamo per entrare avrà poco a che vedere con quello dell’ultimo decennio, a causa delle nuove politiche fiscali e monetarie, allora dobbiamo prepararci per un contesto completamente nuovo. Ciò offre agli asset manager un’opportunità storica per creare prodotti che affrontino questi problemi.

L’ovvia risposta a una nuova era inflazionistica è costruire prodotti di investimento che offrano protezione in “termini reali”. In questo contesto, quali asset si qualificano come “asset reali”? Certamente, quelli nel senso stretto del termine: immobili, infrastrutture, utilities ecc.. Ma, tralasciando l’immobiliare che è una classe di attivo molto ampia e per lo più posseduta in forma illiquida, ci poniamo una domanda: quanti progetti infrastrutturali o altri tipi di “asset reali” sono veramente disponibili su una scala molto grande, per rispondere alle esigenze di investimento connesse alle pensioni? Il che ci porta alle azioni. Che sono l’asset class più liquida e ampia che può offrire un’esposizione alla crescita economica “reale” e un certo grado di protezione dall’inflazione. Tuttavia, come abbiamo appena accennato, anche per i mercati azionari le prospettive di lungo periodo sono oggi poco incoraggianti, a causa delle valutazioni molto elevate, conseguenza a loro volta delle politiche monetarie non convenzionali degli ultimi dodici anni. Materie prime e metalli preziosi troveranno sicuramente spazio in portafogli che mirano a essere “robusti” in un contesto inflazionistico. Ma anche questo non sarà sufficiente. Non crediamo che il problema si riduca alla scelta di sovrappesare una particolare asset class all’interno di un portafoglio diversificato. Occorre ripensare l’intero processo di costruzione dei portafogli. Siamo convinti che un processo tradizionale di allocazione a livello di asset non sia in grado, da solo, di offrire risposte alla domanda di rendimenti in termini “reali”, che il nuovo scenario implica. Riassumendo: i risparmiatori si trovano nella posizione insolita di dover detenere una maggiore porzione dei portafogli in asset reali, eppure i rendimenti delle principali asset class saranno molto più contenuti rispetto al passato. Che fare quindi? L’idea di un investimento fortemente idiosincratico, ossia slegato dall’andamento degli indici di mercato, è stata a lungo discussa ma raramente si è riflessa con pienezza nella costruzione di portafoglio. Questa idea secondo noi è la chiave giusta per navigare nel nuovo contesto di incertezza che stiamo affrontando. Le azioni, come asset class, potrebbero non offrire rendimenti adeguati, ma le singole società possono. E gli investitori possono decidere il modo migliore per investire nelle società, adottando lo strumento giusto all’interno della struttura del capitale: azioni, obbligazioni più o meno senior, prestiti etc. Ciò comporta un ritorno allo “stock picking” ossia alla selezione di titoli, non nel senso tradizionale (selezione rispetto a un benchmark), ma nel senso di “quale funzione svolge questa particolare scelta rispetto all’obiettivo finale di rischio/rendimento?”.

Un portafoglio composto da diverse idee di investimento idiosincratiche, selezionate all’interno un’ampia gamma di asset class “reali”, rappresenta la migliore strategia per navigare nell’era a venire. Al contrario, il metodo tradizionale di allocare prima ad “asset class” dal perimetro molto ampio (azioni, obbligazioni, etc.), per poi “riempire” i vari comparti con i singoli titoli scelti in base al peso che hanno negli indici, non potrà dare i risultati richiesti. È nostra opinione che il ruolo chiave degli asset manager “attivi”, se vogliono offrire rendimenti interessanti e ripetibili, sarà quello di costruire portafogli che poggiano su singoli casi di investimento appositamente selezionati per raggiungere l’obiettivo finale, piuttosto che far leva su metodi tradizionali. Un ultimo punto riguarda il rischio. Il nuovo scenario sarà senza dubbio più incerto di quello che abbiamo vissuto nell’ultimo decennio. La cosiddetta “put” delle banche centrali non potrà più funzionare. Probabilmente vivremo periodi di volatilità più pronunciata e cicli di mercato più brevi. Pertanto, gli investitori devono ridefinire il loro concetto di rischio. Il rischio non è più la semplice volatilità dei prezzi mark to market. Il rischio va definito in funzione della probabilità di raggiungere i risultati desiderati (ad esempio: obiettivi di investimento dei portafogli pensionistici). Perché la definizione di rischio è importante? Perché la propensione a “rischiare” è indispensabile per generare delle buone idee di investimento, selezionate una per una per il loro contributo prospettico al portafoglio, e non per l’appartenenza ad una particolare asset class. Se continueremo invece a definire il rischio esclusivamente in termini di volatilità di breve periodo, perderemo di vista la destinazione finale del viaggio: ottenere rendimenti soddisfacenti, superiori al tasso di inflazione.

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