Clima ed Esg: i gestori europei sono all’avanguardia

La crisi climatica si fa sempre più urgente e l’Europa si dimostra essere la più attenta a combatterla. Gli europei, in altre parole, sono leader mondiali quanto a investimenti sostenibili. Il dato è emerso dalla Global Climate Survey 2022 di Robeco che, per il secondo anno consecutivo, ha pubblicato la sua indagine annuale sul modo in cui gli investitori stanno affrontando le opportunità e i rischi associati al cambiamento climatico. La survey ha coinvolto 300 delle maggiori società del risparmio globale, tra investitori istituzionali e wholesale del mondo provenienti da Europa, Nord America e Asia-Pacifico, equivalenti a circa 23.700 miliardi di dollari di masse in gestione.

Gli investitori del Vecchio Continente sono più avanti dei colleghi nord-americani nell’impegno a rendere i propri portafogli neutrali rispetto al carbonio entro il 2050, negli investimenti tematici e nell’azionariato attivo. È bene considerare che lo studio è stato condotto lo scorso gennaio, quindi prima dello scoppio dell’attuale crisi delle commodity. In ogni caso, stando alla Global Climate Survey 2022 di Robeco, condotta da CoreData Research, gli investitori ritengono che il cambiamento climatico sia la sfida Esg più urgente da affrontare.

Portafogli neutrali rispetto al carbonio entro il 2050. Per tre quarti degli investitori (75%), il cambiamento climatico è un fattore centrale o significativo per le politiche d’investimento, percentuale in forte aumento rispetto a due anni fa (34%). Intanto, l’impegno per il Net Zero è diventato mainstream. Quasi la metà degli investitori si è impegnata pubblicamente a rendere i propri portafogli neutrali rispetto al carbonio entro il 2050, oppure è intenta ad assumersi un simile impegno (18%). In Nord America solo l’11% degli investitori si è attivato per ridurre a zero le emissioni di carbonio, in ritardo rispetto ai colleghi di Europa (40%) e Asia-Pacifico (31%). A livello settoriale, spicca l’impegno del 43% delle compagnie assicurative.

In secondo luogo, tra gli importanti risultati dell’indagine, degna di nota è la spiccata propensione degli investitori a disinvestire completamente dalle società di gas e petrolio che ancora usano i combustibili fossili (dall’11% di oggi al 22% previsto nel giro di due anni). Entrando nei dettagli finanziari, l’equity globale (indicato dal 66% degli investitori) e quello domestico (59%) sono le due asset class più popolari per gli investitori in materia di decarbonizzazione nei prossimi uno o due anni. Seguono nella classifica gli asset reali, come infrastrutture e beni immobiliari, (58%) e il debito corporate (48%). Ma rispetto al 2021 è cresciuta l’attenzione verso altre categorie, come le commodity e l’obbligazionario dei mercati emergenti.

Lucian Peppelenbos (nella foto), climate strategist di Robeco, ha detto: «la Climate Survey spiega come gli investitori istituzionali percepiscono alcune delle questioni chiave legate a cambiamenti climatici, biodiversità e stewardship. Anche se c’è incertezza su questi temi, sappiamo di dover agire in fretta. Non possiamo permetterci di aspettare dati inconfutabili o soluzioni infallibili. Dobbiamo rimboccarci le maniche e fare del nostro meglio, perché siamo noi investitori a poter allocare le risorse necessarie e a fare la differenza. In qualità di leader mondiali dell’investimento sostenibile, riteniamo sia nostro dovere condividere le conoscenze che abbiamo acquisito, nella speranza che questa ricerca contribuisca a stimolare il settore degli investimenti e a contrastare in modo costruttivo il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità».

Investimenti tematici Esg. Un altro risultato chiave della Climate Survey 2022 è la forte volontà di produrre un impatto sul mondo reale, come dimostra innanzitutto il ricorso a investimenti tematici sul fronte della sostenibilità (ad esempio in ambito di energia rinnovabile o di tecnologia green). Quasi tre quarti degli investitori (70%) ricorrono all’investimento tematico, anche in questo in caso con l’Europa e l’Asia-Pacific davanti al Nord America. Rilevante è anche la crescita dell’azionariato attivo (engagement e voto compresi), che il 73% degli intervistati cita come fattore centrale o significativo per le politiche di investimento (rispetto al 54% di un anno fa). Se è vero che questo trend è forte soprattutto in Europa (si è passati dall’81% al 90% nel giro di due anni), è comunque presente anche in Nord America (dal 60% al 68%) e in Asia-Pacific (dall’80% al 82%). Tra i temi di engagement ambientale percepiti come più urgenti per i prossimi due/tre anni figurano la neutralità delle emissioni di CO2, la riduzione dei rifiuti a livello globale, l’arresto della deforestazione e la protezione della biodiversità.

Il problema della scarsità di dati in tema di biodiversità. Sulla salvaguardia della biodiversità, tema oscurato negli anni passati dagli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti, la consapevolezza degli investitori è accelerata rapidamente. La percentuale di chi la ritiene un fattore importante per le politiche di investimento è più che raddoppiata dal 19% di due anni fa al 41% di oggi ed è attesa salire al 56% nel prossimo biennio. La più grande motivazione alla base di questo trend di investimento è l’impegno a ridurre i rischi sistemici a lungo termine associati alla perdita di biodiversità, che ha un impatto su tutti settori, società ed economie. Per il 50% degli intervistati, però, l’implementazione a livello organizzativo resta complessa, per la mancanza di dati di ricerca, di rating e di informazioni aziendali. Il problema resta questo: come tradurre questo fattore in termini di rischio finanziario e flussi di cassa scontati a livello di emittente? «Questa è la vera sfida con la biodiversità. Con il cambiamento climatico è un pò più facile perché si ha l’impronta di carbonio. Conosciamo tutti i limiti di questa metrica, ma almeno ci permette di collegare un’azienda al cambiamento climatico», ha concluso Peppelenbos. Infine, il 43% pensa che la carenza di strategie e di prodotti di investimento adeguati sia d’ostacolo a chi vuole prendere sul serio la biodiversità, mentre il 46% lamenta una domanda insufficiente da parte degli investitori finali.

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