Invesco: la ripresa segue percorsi diversi nei Paesi emergenti e in quelli sviluppati

LE DIVERGENZE NELLA RIPRESA – Negli ultimi anni, sia i Paesi sviluppati, sia quelli emergenti, hanno reagito all’onda lunga della grande recessione del 2008 e 2009, e c’è stata una divergenza dei cicli in ogni area, spiega John Greenwood, capo economista di Invesco. La ripresa delle economie nei Paesi sviluppati è stata ostacolata da due fattori: il lento processo del risanamento dei bilanci, soprattutto tra le banche, e le diverse conseguenze prodotte dall’implementazione del quantitative easing (QE), ovvero dell’acquisto da parte della Banca centrale di titoli di stato con nuova moneta immessa sul mercato. Questi fattori hanno contribuito a creare una crescita inferiore alla media, un ritorno terribilmente lento alla piena occupazione, una bassa crescita dei salari e un elettorato insofferente. Per contro, nel periodo tra il 2008 e il 2010, i Paesi emergenti hanno implementato programmi che prevedevano forti stimoli. Questi hanno avuto così successo che alcune economie, tra cui Cina, Brasile e Russia, hanno dovuto invertire la rotta e dare un colpo di freno nel 2011 e nel 2012. Di conseguenza, tra il 2014 e il 2016, hanno sperimentato rallentamenti congiunturali, recessioni, debolezza valutaria e dolorose rinegoziazioni del debito. Sia per le economie dei Paesi sviluppati, sia per quelle dei Paesi emergenti, le prospettive per il 2017 saranno strettamente correlate al modo in cui saranno affrontati questi diversi problemi.

LE ECONOMIE DEI PAESI SVILUPPATI
– Negli USA, Donald Trump assumerà la carica di presidente il 20 gennaio 2017 e i Repubblicani controlleranno entrambe le Camere del Parlamento, sottolinea Greenwood. Trump ha proposto diverse misure di stimolo fiscale, tra cui figurano tagli alle tasse sulle persone fisiche e giuridiche e numerosi programmi di spese nelle infrastrutture per stimolare la crescita e incoraggiare il rimpatrio dei capitali detenuti all’estero. Inoltre, intende riformare l’Affordable Care Act (ponendo fine agli incentivi per assumere i lavoratori per sole 29 ore settimanali), abolire le restrizioni alla produzione di energia (liberalizzando l’olio di scisto, il petrolio, il gas naturale e il carbone pulito) e rivedere il Dodd Frank Act sulle normative bancarie. Sorprendentemente, punta a raggiungere un tasso di crescita almeno del 3,5% o addirittura del 4%. Nonostante alcuni risparmi che si potrebbero ottenere riducendo la complessità delle normative e cancellando i contributi degli USA ai programmi dell’ONU sui cambiamenti climatici, il deficit del bilancio USA sembra essere destinato a salire, così come avvenne sotto la presidenza di Ronald Reagan. Il deficit di bilancio, oltre che da questi risparmi, può essere finanziato solamente mediante la tassazione, i prestiti, o la creazione di nuova moneta e di nuovo credito (come abbiamo visto in Cina dal 2008 al 2010 con gli stimoli fiscali). Poiché la tassazione è fuori questione, e la Federal Reserve non collaborerà alla stampa di moneta non autorizzata (si prevede che alzerà i tassi d’interesse nel dicembre 2016 e probabilmente altre due o tre volte nel 2017), per finanziare questo deficit si potrà soltanto ricorrere ai prestiti. Subito dopo il risultato delle elezioni presidenziali, i rendimenti obbligazionari sono saliti, le aspettative d’inflazione sono aumentate e il dollaro si è rafforzato. Per quanto riguarda la politica estera, Trump ha dichiarato che rinegozierà il North American Free Trade Agreement (NAFTA), accordo commerciale di libero scambio tra Usa, Canada e Messico, che si ritirerà dal Trans-Pacific Partnership (TPP), che promuove investimenti e scambi tra i Paesi membri, e che imporrà tariffe consistenti sui “manipolatori del cambio” in modo da bloccare l’arrivo di acciaio che riceve sussidi illegali e altri materiali industriali chiave che hanno prezzi inferiori a quelli di mercato. Trump intende inoltre scoraggiare tra le aziende USA la pratica della delocalizzazione. Il suo scopo è ridare slancio all’occupazione nel settore manifatturiero, minerario, forestale, siderurgico, dell’alluminio e di altre industrie pesanti. Il suo programma mira a ripristinare i punti di forza dell’economia americana, migliorando lo stato di salute delle aziende e delle famiglie americane. A mio avviso, la crescita del PIL reale migliorerà e salirà al 2,5%, mentre l’inflazione IPC (inflazione dei prezzi al consumo, o al dettaglio) raggiungerà il 2,1% nel 2017.

IL QUADRO IN EUROPA – In Europa il quadro economico appare meno favorevole. I faticosi progressi nella risoluzione bancaria, la debolezza del programma di QE della BCE e la discesa dei tassi in territorio negativo sono alcuni degli ostacoli alla ripresa dell’economia. La disoccupazione in Europa è ancora a due cifre e i redditi stentano a salire. Di conseguenza, a sinistra, come a destra, hanno trovato terreno fertile i movimenti politici populisti e xenofobi che hanno un effetto disgregante. Poiché i tradizionali governi di centro-destra o di centro-sinistra in Italia, Olanda, Francia e Germania si troveranno a breve di fronte a referendum o a scadenze elettorali nel 2017, esiste il forte rischio di ulteriori mutamenti politici con effetti perturbatori. A un certo punto, uno o più di questi elettorati potrebbe prendere il sopravvento sulle élite di governo e costituire una minaccia esistenziale per l’ordine prestabilito, per l’Unione europea (UE) o addirittura per la zona Euro. A mio avviso la crescita del PIL reale non supererà l’1,5%, con un’inflazione che scenderà, ma che sarà ben lontana dagli obiettivi di poco inferiori al 2 % ipotizzati dalla BCE. L’economia britannica, a confronto, si sta comportando piuttosto bene. Segue il modello USA di graduale risanamento dei bilanci ed è aiutata dalle iniezioni di moneta creata dal QE. Dal 2013 il PIL reale è cresciuto in media del 2,3% e, a differenza di quanto osservato nella zona Euro, non c’è stato un problema di deflazione. Tuttavia, a seguito del voto sulla Brexit nel giugno 2016, il Regno Unito rischia di perdere l’accesso, privo di barriere doganali, al mercato dell’UE, di veder calare gli investimenti stranieri diretti e di veder Londra ampiamente ridimensionata come capitale finanziaria europea. Finora, tra le ripercussioni negative c’è stato il calo del 14% dell’indice ponderato su base commerciale della sterlina. La valuta britannica potrebbe però scendere ancora dopo marzo 2017, quando avranno inizio i negoziati formali con l’UE. Queste svalutazioni farebbero salire i prezzi dell’importazione, facendoli avvicinare all’indice dei prezzi al consumo IPC, mettendo a repentaglio la crescita dei salari reali. Poiché la spesa al consumo del Regno Unito rappresenta il 65% del PIL, la riduzione della crescita economica sarebbe significativa. A mio avviso possiamo attenderci una crescita dell’1,4% e un’inflazione IPC del 2,5%. In Giappone, così come nella zona Euro, il risanamento dei bilanci tra le banche e le riforme strutturali procedono a rilento, e l’impatto del “qualitative and quantitative easing” (QQE) è stato di gran lunga inferiore al previsto. Di conseguenza, la crescita è stata debole, e la ripresa dell’inflazione ha rappresentato un costante problema. Le politiche economiche del primo ministro Shinzo Abe, note come “Abenomics

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