Bnp Paribas Ip: timori per il commercio globale, subentrano incertezze di natura politica

OCCHI PUNTATI SUGLI USA – Nelle ultime settimane, l’attenzione dei mercati finanziari si è focalizzata perlopiù sui provvedimenti favorevoli attesi dalla nuova amministrazione USA: tagli alle tasse, trattamento fiscale favorevole per i profitti aziendali rimpatriati e nuove deregolamentazioni, spiega Joost van Leenders, chief economist del team Multi asset solutions di Bnp Paribas Ip. A nostro avviso, queste misure sono già state integrate nelle quotazioni, ma negli USA le incertezze permangono. Infatti, Trump deve ancora presentare un piano economico coerente. E ci sono evidenti divergenze tra il presidente e il Congresso a maggioranza repubblicana. Intanto, gli scambi commerciali internazionali potrebbero soffrire di nuove pressioni e pertanto – tenuto conto dei rischi al ribasso – il gestore ha mantenuto un atteggiamento prudente, adottando un sottopeso nel comparto delle obbligazioni societarie high-yield USA rispetto alla liquidità.

COMMERCIO GLOBALE IN DIFFICOLTA’ – A partire dalla crisi finanziaria del 2008/09, il commercio mondiale ha registrato una crescita fiacca. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, tale andamento è riconducibile alla debolezza complessiva dell’attività economica a livello globale e, in particolare, degli investimenti societari, al rallentamento della liberalizzazione degli scambi, all’accentuazione dei rischi di natura politica e alla frenata della globalizzazione, che in qualche caso è persino regredita, aggiunge van Leenders. A questi fattori, aggiungiamo la contrazione del credito commerciale determinata dall’inasprimento della regolamentazione finanziaria e la perdita di competitività della Cina legata all’aumento dei salari. I nostri analisti non ritengono che tale situazione possa mutare in tempi brevi, poiché la crescita molto scarsa degli investimenti delle imprese è un fenomeno che interessa tutta l’economia a livello globale. Inoltre, le misure restrittive per gli scambi commerciali internazionali sono state costantemente inasprite negli ultimi anni e l’orientamento protezionista di Trump non dovrebbe migliorare la situazione. Le pressioni sulle aziende per investire negli Stati Uniti invece che all’estero potrebbero favorire l’occupazione a livello locale, ma farebbero anche aumentare i prezzi per i consumatori americani – e frenerebbero ulteriormente la globalizzazione. Inoltre, l’imposizione di veri e propri dazi sulle importazioni o di una “border tax” per le aziende (che escluderebbe dalla base imponibile le esportazioni e non consentirebbe più la deducibilità delle importazioni) limiterebbe ulteriormente il commercio globale, senza contare il rischio di ritorsioni da parte di altri paesi.

LA MINACCIA BREXIT – Anche la Brexit rappresenta una minaccia per il commercio transfrontaliero. Il primo ministro britannico Theresa May pare orientata verso uno strappo secco con l’UE che consenta al Regno Unito il pieno controllo dell’immigrazione e di non essere soggetto alla giurisdizione della Corte di giustizia europea. Questa soluzione – la cosiddetta hard Brexit non permetterebbe di accedere al mercato comune e benché sia possibile che il Regno Unito sigli degli accordi commerciali con altri paesi (pare che questo tema sia tra i punti salienti del prossimo vertice May-Trump), tali negoziati richiederebbero tempo e peraltro la zona euro è il maggiore importatore di beni prodotti nel Regno Unito. Oltre all’indebolimento della sterlina inglese, le conseguenze della Brexit hanno iniziato a farsi sentire con un aumento dell’inflazione, un calo della fiducia dei consumatori e un rallentamento delle vendite al dettaglio. Comunque, le ripercussioni complessive dell’uscita dall’UE non sono ancora visibili.  Negli ultimi tempi, il volume del commercio globale ha registrato un miglioramento, ma soprattutto in termini nominali, poiché la deflazione dei prezzi ha rallentato. Invece, in termini reali la crescita dell’interscambio pare ancora lenta e rappresenta un ostacolo per i mercati emergenti: tale fattore, assieme alla frenata del ciclo del credito ormai maturo in alcuni paesi, non lascia prevedere una forte ripresa di queste economie, sottolinea van Leenders.  

EUROPA & USA: CRESCITA SUPERIORE AL DATO TENDENZIALE – La disoccupazione bassa e le prime pressioni al rialzo su salari e prezzi al consumo inducono a ritenere che gli Stati Uniti registreranno una crescita superiore al tasso tendenziale. Tuttavia, l’aumento dell’inflazione presenta un rovescio della medaglia frenando la spesa al consumo su tassi di crescita piuttosto modesti, salvo che l’ottimismo prevalente non incoraggi i consumatori a far ricorso ai risparmi. Comunque, dubitiamo che le famiglie siano pronte a farlo a fronte del rialzo dell’inflazione e dei tassi d’interesse, aggiunge van Leenders. A prima vista la situazione pare migliore sul fronte della produzione industriale, che è cresciuta per la prima volta dal mese di agosto 2015. Tuttavia l’attività manifatturiera – meno volatile poiché esclude il settore minierario e le utility – ha continuato a oscillare nel range degli ultimi anni. La fiducia delle imprese edili si è indebolita, ma è in calo dai massimi ciclici. La flessione delle nuove licenze edilizie ha confermato la tendenza al ribasso e le aperture di nuovi cantieri sono sostanzialmente stabili. Il rialzo dell’inflazione potrebbe influenzare la politica monetaria: vari funzionari ai vertici della Federal Reserve si sono espressi a favore di due rialzi dei tassi, ma al momento pare che la posizione prevalente nell’ambito della banca centrale stia passando da due a tre rialzi. Un giro di vite in giugno pare ormai certo per i mercati, dato che le probabilità integrate nel prezzo dei future sui fed funds si attestano al 74%. Di recente, il presidente della Federal Reserve Yellen ha messo in guardia dal rischio di surriscaldamento dell’economia nel lungo periodo: ritardare troppo il rientro da una politica monetaria espansiva potrebbe favorire un rialzo sia delle attese d’inflazione sia dei prezzi al consumo, rendendoli più difficili da controllare. Dopo le dichiarazioni della Yellen i titoli azionari statunitensi hanno accusato una flessione. Per quanto riguarda l’area dell’euro, i mercati hanno seguito attentamente la riunione del Consiglio direttivo della BCE per anticipare l’eventuale reazione della banca centrale al relativo rafforzamento della crescita e all’aumento dell’inflazione. Gli operatori temevano, infatti, che la BCE avrebbe potuto rimettere in discussione l’impegno di mantenere invariato l’importo degli acquisti di attivi pari a 60 miliardi di euro al mese sino a fine anno. Noi avevamo subito escluso questa possibilità dato che la misura era stata annunciata solo un mese fa e, dunque, i margini per eventuali modifiche o addirittura per un ridimensionamento del programma di allentamento sono rimasti molto ampi. Per il momento, Draghi ha chiesto ai mercati di pazientare e l’euro si è indebolito sulla scia di questa dichiarazione mostrando di averla interpretata in senso espansivo, ma la flessione è stata solo temporanea. Ad ogni modo, secondo noi, la scelta della BCE di ignorare l’aumento dell’inflazione è importante in quanto riduce il pericolo di commettere errori con un intervento restrittivo.

ALLOCAZIONE DEGLI ATTIVI: TITOLI HIGH-YIELD USA IN SOTTOPESO – Nell’ambito delle strategie total return abbiamo costituito una protezione al rialzo attraverso delle opzioni. Nel quadro della distribuzione complessiva degli attivi abbiamo però ulteriormente ridotto l’esposizione verso gli strumenti finanziari rischiosi, in particolare con il sottopeso nel comparto delle obbligazioni societarie high-yield USA rispetto alla liquidità. I fondamentali di questo segmento di mercato si sono deteriorati negli ultimi anni, in particolare per quanto riguarda l’indebitamento, che è aumentato non solo nel segmento delle materie prime. A nostro avviso, i titoli high-yield sono sopravvalutati, mentre la disponibilità di credito per le imprese pare in peggioramento, conclude van Leenders.

 

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