L’enigma del private equity

Quello che stupisce nel mondo della finanza è come ogni investimento, ogni asset class, disponga di un proprio benchmark di riferimento, strumento indispensabile per stilare classifiche sulle performance e confrontarle con i relativi mercati o indici di riferimento.
 
Ovviamente questo è possibile soprattutto quando i cosiddetti “sottostanti” sono asset prezzabili: nel senso che esiste un mercato di riferimento regolamentato (e non) capace di esprimere un prezzo giornaliero per le attività.

Quando, invece, l’attenzione si sposta sui fondi di private equity, la mancanza di dati ufficiali (non esiste una fonte ufficiale e unica, se non l’Institutional Limited Partners Association e l’AIMR) rende questo processo di analisi difficoltoso e incompleto. Ulteriori difficoltà provengono inoltre dalla metodologia utilizzata per il calcolo delle performance di questi fondi che presenta numerose distorsioni e si presta a valutazioni soggettive.

In un contesto di denaro a basso costo (come quello degli ultimi tre anni) la proliferazione delle operazioni di Leveraged Buyout (LBO) ha visto gli asset (equity) detenuti dai fondi di private equity crescere fino a un trilione di dollari di masse gestite globali. Le masse in valore assoluto rappresentano circa la metà di quanto detengono i fondi hedge ma in ogni caso una cifra ragguardevole se si considera l’ampio ricorso al leverage utilizzato per chiudere le grandi operazioni che vedono protagonisti questi operatori (si ricorda il caso storico della conglomerata RJR Nabisco comprata nel 1988 da KKR con una leva di 1 a 25).
 
L’attività dei fondi di private equity, spesso etichettati in Europa con il termine di fondi “locusta”, ha attirato anche l’attenzione del Parlamento Europeo che ha richiesto ufficialmente di approfondire l’universo di questi fondi e il loro funzionamento. Lo scopo, così come accaduto per i fondi hedge, era di capire se questa industria necessitasse, o meno, di una qualche forma di regolamentazione e che tipo di impatto avrebbe potuto avere sulla stabilità finanziaria globale.
I risultati sono racchiusi in una ricerca condotta dal professore Oliver Gottschalg dell’Università HEC Business School di Parigi che ha dedicato gli ultimi sette anni del suo lavoro allo studio delle performance dei fondi di private equity e all’impatto che questi fondi hanno sulle società controllate. 


 
Quello che si evince dalle indagini condotte su un campione di oltre 6.000 operazioni di private equity e 1.300 fondi di buyout (l’analisi si è basata sui risultati nel periodo 1982-1995 in modo tale che tutte gli investimenti fossero stati liquidati dai rispettivi fondi) è di un asset class che presenta una forte frammentazione in termini di performance ma che, contrariamente a quanto si possa pensare, ha effetti positivi sulle società partecipate.
I dati raccolti hanno inoltre avuto il merito di sfatare alcuni “miti” legati alle performance dei fondi di private equity o, come nel caso del calcolo delle performance dei fondi, hanno portato luce su aspetti controversi.
Hedge ha intervistato Gottschalg per capire i meccanismi che regolano questa industria.
 
Il pensiero comune considera l’investimento in private equity come un “affare” sicuro e capace di generare performance positive in ogni condizione di mercato: è veramente così?
Molti credono che investire in private equity sia sempre un buon affare ma le ricerche che ho condotto sull’argomento dimostrano che solo il primo quartile dei fondi attivi genera buone performance. Solo questa ristretta fascia dell’industria dimostra di generare rendimenti interessanti, mentre in media le performance registrate dall’industria hanno evidenziato un rendimento inferiore alla media di principali indicatori azionari. In dettaglio ho riscontrato che le performance medie dell’industria hanno sottoperformato (dopo le commissioni) l’indice S&P 500 del 3%. 


 

 L’intervista completa è su Hedge di maggio

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