Tesoro: nessun rischio per conti pubblici da derivati anni Novanta

IL TESORO REPLICA ALLE INDISCREZIONI DEL FINANCIAL TIMES – Tirato in ballo stamane da un pezzo sul Financial Times immediatamente ripreso dai media italiani in cui si segnalava il rischio di perdite fino a 8 miliardi di euro su una serie di operazioni in derivati aperte dal Tesoro italiano alla fine degli anni Novanta, il Tesoro in una nota precisa che non esiste alcun pericolo per i conti dello stato. In particolare, spiega la nota, la Corte dei Conti nel mese di marzo 2013, tramite la Guardia di Finanza, ha chiesto la documentazione inerente alla sola attività di chiusura di un gruppo consistente di operazioni con Morgan Stanley. “A fronte di tale richiesta, il Tesoro ha fornito tutta la documentazione richiesta, secondo tempi concordati con la Guardia di Finanza stessa, per ciascuna operazione, inclusi i contratti pregressi dai quali ciascuna operazione ha avuto origine”.

VALORE MARK TO MARKET NON E' ASSIMILABILE A PERDITA – La filosofia di fondo dell’operatività in derivati della Repubblica, prosegue la nota, “si basa su criteri ispirati al perseguimento dell’interesse dello Stato, mirando alla protezione dai rischi di mercato, primi fra tutti il rischio di cambio e il rischio di tasso di interesse. Con riferimento in particolare a quest’ultimo, l’attività in derivati è stata mirata a conseguire l’allungamento della duration complessiva del debito, al fine di proteggere da un eventuale rialzo dei tassi, pagando tasso fisso e ricevendo variabile”, attività che “rappresenta una protezione verso futuri shock sui tassi di interesse”. Come ogni assicurazione, peraltro, sottolinea il Tesoro, “ove l’evento verso il quale ci si protegge non si verifichi, si sopporta un costo, che rimane tuttavia giustificato dalla priorità attribuita alla prevenzione di gravi conseguenze in caso di scenari avversi”. “Il valore di mercato degli strumenti derivati in uno specifico momento, il cosiddetto “mark to market”, non è in nessun caso assimilabile a una perdita realizzata. Esclusivamente in presenza di specifiche clausole le controparti possono reciprocamente esigerne la corresponsione secondo le modalità previste nei contratti”.

DERIVATI NON FURONO UTILIZZATI PER ENTRARE NELL'EURO – Infine, conclude la nota, “è assolutamente priva di ogni fondamento l’ipotesi che la Repubblica Italiana abbia utilizzato i derivati alla fine degli anni Novanta per creare le condizioni richieste per l’entrata nell’euro. Le operazioni poste in essere all’epoca sono state sempre registrate correttamente secondo una prassi consolidata, nel rispetto dei principi contabili sia nazionali che europei. I controlli effettuati sistematicamente dall’Eurostat a far tempo dalla seconda metà degli anni Novanta, anche quelli conseguenti all’introduzione in più fasi di nuove linee guida sugli strumenti finanziari derivati, hanno sempre confermato la regolarità della contabilizzazione di queste operazioni”. Caso chiuso?

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