È tempo di cambiamento per le banche popolari

Ha ancora senso la formula delle banche popolari? Senz’altro sì, se parliamo di istituti radicati nella realtà locale, in cui il voto capitario si sposa con una politica di forte diversificazione del rischio e in cui le scelte del management riescono a combinare, senza troppi cedimenti, le esigenze della clientela con quelle dei dipendenti. Istituti che, soprattutto, sappiano fare muro contro l’invadenza della politica o di altri attori locali e nazionali. Una miscela quasi ingovernabile, invece, quando crescono le dimensioni.

Il giudizio sorge spontaneo al termine della tornata assemblare di fine aprile, in cui si è visto di tutto e di più. Come il duello all’ultimo voto in casa Ubi, con il ritiro a sorpresa dell’ex deputato Iannone e la vittoria di misura di Andrea Moltrasio; o l’adunata da stadio in quel di Lodi con i 18mila soci del Banco Popolare che hanno approvato un bilancio “da brivido” (1.164 milioni di rosso); finita anche quest’anno a suon di schiaffoni invece in Banca Popolare dell’Emilia Romagna; al solito però, la vera battaglia ha riguardato la Banca Popolare di Milano, dove i sindacati sono tornati a far fronte comune dinanzi al progetto di trasformazione della cooperativa in società per azioni.

Insomma, la cronaca delle grandi popolari ricorda da vicino l’impotenza in certi passaggi della politica italiana. Il confronto in assemblea rischia così di trasformarsi in una resa dei conti per vicende di bottega o, peggio, per vincolare al potere politico locale (o nazionale) scelte strategiche. È in atto un progressivo snaturamento di una formula che ha avuto in passato grandi meriti. C’è da chiedersi se Banca d’Italia non ritenga sia stato ormai raggiunto il livello di guardia. La formula della cooperativa è ancora in grado, oltre certe dimensioni, di assicurare al sistema gli anticorpi necessari? E ha senso equiparare il voto di un dipendente che magari ha impegnato solo 20 o 50 euro a quello di chi ha investito centinaia di migliaia di euro o più?

La sensazione è che sia necessario mettere ordine nel sistema: oltre una certa dimensione, le Popolari vanno trasformate in spa, senza danno patrimoniale per i diritti acquisiti dei dipendenti, ma senza cedimenti sul fronte della governance. Il tema è ben noto e agitato da tempo. Prendiamo atto, però, del fatto che il Parlamento, manovrato dalle lobby, non sia riuscito nelle ultime due legislature a votare una riforma del sistema e che la moral suasion esercitata a suo tempo da Via Nazionale nei confronti di Bpm rischia di finire in una bolla di sapone proprio sul traguardo.

Adesso, però, deve suonare l’ora del cambiamento. In primo luogo, in vista dell’Unione bancaria europea, un appuntamento in cui non verranno fatti sconti alle banche di casa nostra. Secondo, perché al ministero dell’Economia è approdato un tecnico di Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, che ha ben chiaro sia che cosa fare, sia l’urgenza della riforma. Certo non mancheranno le resistenze, ma è una battaglia, seppur piccola, dal grande impatto psicologico per il mondo del risparmio.

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