Dunque, un governo di ricostruzione più che di cambiamento. Ma in fondo, dopo il risultato elettorale e il reiterato no di Grillo al Pd, era l’unica soluzione possibile. E in fondo la soluzione più gradita alla maggioranza degli italiani. Il nuovo primo ministro Enrico Letta, nipote d’arte, guida un esecutivo definito a forte caratura democristiana. In effetti, visti i percorsi politici e culturali della maggioranza dei ministri, c’è un po’ di sapore vintage che ricorda governi d’altri tempi seppur con facce nuove.
Ma più che andar indietro nel tempo, forse è meglio concentrarsi sul futuro. Il programma presentato alle Camere non è niente male, prende il meglio degli schieramenti che sorreggono il governo. Il problema sarà con quali risorse attuarlo, visto che solo il rinvio dell’Imu pone un problema di un gettito di 7-8 miliardi. Poi c’è il rifinanziamento della cassa integrazione, il tentativo di non aumentare l’Iva, eccetera. Tutte belle cose.
Ma con quali soldi? Un governo democristiano compirà scelte democristiane, ossia quelle che fanno un po’ di male a tutti ma finiscono per non farne troppo a nessuno, come il tradizionale aumento delle accise su alcool, giochi e tabacco, magari un ritocchino alla benzina, molto probabilmente il mantenimento della linea Tremonti-Monti sulla sanità che prevede quasi il raddoppio delle entrate da ticket. C’è sempre la lotta all’evasione fiscale, ma quella non è calcolabile.
Semmai, il governo Letta sarà un governo dei risparmiatori, mentre quello precedente è stato un governo degli investitori. Monti ha guardato prevalentemente ai mercati, Letta dovrà guardare al mercato: quello del lavoro, soprattutto, ritonificando la società e contribuendo a far ripartire l’economia. Si dovrebbero generare nuove fonti di reddito, con più consumi e anche più risparmi.