La malattia del corporativismo passa anche dagli “ordini”

Il liberista convinto che è in me capisce davvero poco l’utilità degli ordini professionali. Al tempo della globalizzazione, della concorrenza su scala internazionale che ha rivoltato come un calzino logiche vetuste, trovo da tanto tempo anacronistico proseguire a ragionare secondo una mentalità “categoriale”. Eppure, al di là di qualche coraggioso tentativo, mi pare proprio che il mondo delle professioni continui a viaggiare per compartimenti stagni. Ciascuno in difesa del proprio orticello, magari aggiornato con interventi di maquillage che si rivelano timidi tentativi per nascondere le vistose rughe. E quando la sera il trucco svanisce emerge il vero volto, quello di ordini professionali vecchi, incapaci di leggere la realtà, dediti solo a salvaguardare posizioni di rendita.

In buona sostanza: organismi più inclini a riprodurre il cattivo esempio che viene dalla politica (perché essi stessi soggetti politici) che ad aprire gli occhi su quel che accade intorno a noi. Parliamoci chiaro: i vertici degli ordini professionali si sono sempre spesi per cementare i loro rapporti con le lobby politiche, e operando in quel modo assai discutibile, hanno pure portato a casa incarichi altamente remunerativi e di sicuro prestigio. Insomma, si sono perfettamente adeguati al malcostume tipico del nostro Belpaese dove tutto o quasi è corporazione con i danni evidenti che sono tutti gli occhi di tutte le persone normali che patiscono ogni giorno della replica costante di tali vizi; il riferimento alla burocrazia e alle infinite e sfinenti lungaggini che determina è un atto doveroso.

Naturalmente non sfugge a questo andazzo la categoria dei commercialisti che, al di là di qualche proclama buono per la campagna elettorale interna quando si tratta di eleggere la nuova nomenclatura, non fa nulla per smarcarsi. Ci si straccia le vesti per battaglie di retroguardia che non fanno altro che confermare una scarsa capacità di mettersi in sintonia con il Paese reale. Siamo sempre lì: liquidatori di pratiche, punto. Mentre servirebbe agire con ben altro respiro. Per esempio attivarsi e sensibilizzare i decisori affinché il consulente d’impresa, che siede nei Consigli di amministrazione o nei collegi sindacali, abbia tutte le carte in regola per svolgere quelle mansioni in piena autonomia, fedele solo al proprio senso di responsabilità e che, quindi, non può essere nominato dai soci di maggioranza. Andrebbero condotte battaglie per affermare la necessità di collegi sindacali esterni alle aziende perché solo così si verrebbe a garantire una governanceal riparo dalla mentalità “captive”.

Perché oggi i sindaci, de facto, non controllano un bel nulla, sono lì per fare le belle statuine e per assicurarsi la continuità del posto al sole. Ma più che abbronzarsi così ci si scotta! Ecco: se un ordine professionale può ancora avere un senso si adoperi, agisca con coraggio, individuando le mille battaglie da condurre nell’interesse, prima di tutto, del Sistema Paese. Altrimenti è più saggio abbassare le saracinesche e aprirsi per davvero alle sfide di un mondo che corre velocemente. Rimango convinto che la strada da seguire sia la seconda e che la stagione delle liberalizzazioni debba tornare di attualità. Specie in un Paese in affanno non ci si può più permettere che ogni decisione riformista debba passare al vaglio di questa o quella corporazione. Il tempo della rendita è scaduto!

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