Quello che raccontò Giuseppe al faraone  

Dalla catastrofe dei subprime sono già passati sette anni di vacche magre, anzi superati perché stanno per diventare otto. Ora perciò, almeno secondo la tradizione biblica, dovremmo avere di fronte sette anni di vacche grasse. Peccato che lo scenario europeo, e non solo, sia ben diverso, stretti come siamo fra timori di nuove recessioni, spinte deflazionistiche e il riemergere a corrente alterna di incubi mai sopiti sui debiti sovrani.

Nella Genesi, Giuseppe, dodicesimo figlio di Giacobbe, è chiamato a interpretare due sogni angosciosi del Faraone, dove s’intravedono vacche paciose e vacche assassine. Giuseppe arriva a darne una lettura squisitamente economica – ancorché legata alla volontà divina – spiegando come abbiano a che fare con le regole dell’alternanza fra abbondanza e carestia, arrivando a suggerire un’imposta fissa del 20% sui prodotti agricoli dell’Egitto al fine di smussare il ciclo tra fasi di surplus e non, dovuto essenzialmente a condizioni metereologiche. Il saggio Giuseppe dice semplicemente al faraone che una gestione prudente e attiva del futuro riduce le sorprese spiacevoli.

Quasi certamente anche un von Hayek o un Keynes avrebbero apprezzato un tale buon senso in politica economica. Il punto è che dai tempi dei faraoni sono passati millenni ma sembriamo ancora vagare attorno al punto di partenza. Viviamo aggrappati al potere salvifico, si fa per dire, delle banche centrali per uscire dai cicli di magra, scommettendo sulla capacità di produrre prima o poi una crescita forzata che azzeri gli effetti nefasti della repressione finanziaria e del deficit spending.

Tuttavia, l’esame di realtà continua a non fare sconti, mentre la globalizzazione impone tagli a salari e stipendi, l’innovazione tecnologica riduce i posti di lavoro e l’invecchiamento in Occidente diventa ingestibile con un welfare dalla culla alla bara. Chissà cosa direbbe oggi Giuseppe. Prosit.

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