Perché questo è il mercato rialzista più affannato di sempre

A cura di William Davies, Responsabile azionario globale, Columbia Threadneedle Investments

L’attuale fase rialzista dei mercati azionari è giunta al nono anno, un periodo straordinario per gli investitori. All’inizio del mese di marzo 2018, l’indice S&P 500 era quasi quadruplicato rispetto al minimo toccato a marzo 2009 durante la crisi finanziaria e aveva guadagnato il 66% sul massimo pre-crisi dell’ottobre 2007. Sono passati quasi dieci anni, ma non è stata una passeggiata.
La correzione di febbraio è stato l’ultimo di una serie di allarmi che si sono susseguiti per quasi un decennio e che hanno visto gli investitori scalare continuamente un muro di paura, in un certo senso benaccetto: la compiacenza dei mercati non è voluta.

Fuori dalla crisi
La reazione alla crisi finanziaria mondiale è stata per lungo tempo incentrata sulla cautela. Una profonda recessione ha gravemente indebolito i bilanci delle società finanziarie, alimentando costantemente i timori sulla fragilità delle banche. I tassi di interesse sono stati ridotti all’osso e a novembre 2008 la Federal Reserve statunitense ha annunciato un programma di quantitative easing (QE) da 600 miliardi di dollari USA. Ad aprile 2009, il Regno Unito ha avviato un programma analogo da 50 miliardi di sterline.
Ma la gravità della crisi ha richiesto ulteriori interventi e questi paesi hanno finito per acquistare titoli di Stato per importi, rispettivamente, di 4.500 miliardi di dollari USA e 435 miliardi di sterline. Nel 2015 l’Unione europea ha annunciato il suo programma di QE, che ad oggi ha raggiunto un importo di circa 2.300 miliardi di euro, mentre il Giappone ha rastrellato sul mercato attivi per 521.000 miliardi di yen (4.950 miliardi di dollari USA).

In seguito a questi programmi, le economie si sono gradualmente riprese, molto gradualmente: non ci sono mai stati periodi di espansione eccezionale, ma piuttosto un tasso di crescita nominale costante di circa il 3-4% negli Stati Uniti. I mercati erano in preda a un clima di persistente paura per l’economia e aleggiava sempre la sensazione che il treno stesse per deragliare: il mondo ripiomberà nella recessione? Le banche sono stabili? la Grecia trascinerà l’area euro al ribasso? Fino a quanto scenderanno i prezzi petroliferi? La Cina sarà costretta a svalutare? Gli utili smetteranno di crescere?
Vi sono stati periodi di forte agitazione dei mercati negli Stati Uniti, in Europa, in Cina e nei mercati emergenti. Dal punto di vista geopolitico, è stato un periodo tumultuoso, caratterizzato, tra l’altro, dai timori per il fallimento dell’area dell’euro, culminato nella Brexit, la vittoria del Presidente Trump, continue tensioni politiche tra Stati Uniti e Corea del Nord e uno stuolo di elezioni in Europa. C’era sempre qualcosa da temere.

Poi è arrivato il 2017. Stranamente, i dati sulla crescita europea a inizio anno non hanno deluso le aspettative. Allo stesso tempo, i timori degli investitori riguardo al renminbi e al rischio si svalutazione si sono attenuati, anzi la moneta cinese si è persino rivalutata, e la Cina ha conseguito un tasso di crescita economica sostenuto e apparentemente più sostenibile. Tutto ciò ha avuto un effetto di ricaduta sui mercati emergenti, favoriti anche da un lieve indebolimento del dollaro USA.

Intanto, le tensioni geopolitiche sono rimaste, ma senza mai evolversi secondo le aspettative: la questione della Brexit si è trascinata a lungo, Trump ha sovrinteso a 15 mesi consecutivi di rialzi del mercato, le elezioni in Francia e nei Paesi Bassi si sono concluse senza particolari incidenti e in Italia, nonostante le elezioni abbiano consegnato al paese un parlamento senza maggioranza, le probabilità di un’uscita dall’euro si stanno ridimensionando. Vi sono stati persino segnali di riconciliazione tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti. In un quadro così complesso, l’aspetto più sorprendente per gli investitori è stato che il peggio, di fatto, non è mai arrivato. Tutto considerato, si è verificato un consolidamento che apre a un contesto propizio alle azioni.

All’inizio del 2018, la paura residua è sembrata dissolversi. Gennaio è stato un mese molto positivo: a livello globale, le azioni hanno guadagnato circa il 7% in poche settimane, grazie al persistere della crescita globale sincronizzata già emersa nell’ultima parte dell’anno precedente. Le prospettive sono state addirittura riviste al rialzo: l’economia statunitense si è rinvigorita, Trump ha approvato un provvedimento di sgravi fiscali da 1.500 miliardi di dollari USA e ha concordato un massiccio incremento della spesa federale. La disoccupazione ha continuato a diminuire: negli Stati Uniti si è attestata al minimo degli ultimi 16 anni (4,1%), nel Regno Unito al minimo degli ultimi quattro decenni (4,3%) e in Europa, complessivamente, ai minimi degli ultimi nove anni.

Il contesto sopra descritto segna di norma l’inizio della fine del ciclo economico: il modesto tasso di disoccupazione e la crescita accelerata sfociano in una limitazione della capacità produttiva, la quale porta ad aumenti salariali che, a loro volta, alimentano i timori che le crescenti pressioni inflazionistiche comincino a farsi sentire. Aumentano le probabilità che siano necessari rialzi dei tassi di interesse più rapidi e consistenti. Quando a gennaio l’inflazione salariale statunitense è cresciuta del 2,9% su base annua, il rialzo più cospicuo dal 2009, la reazione dei mercati non si è fatta attendere: i rendimenti obbligazionari sono balzati in avanti, mentre gli indici azionari mondiali sono crollati. Improvvisamente, c’era di nuovo qualcosa di cui aver paura… e per fortuna.

I mercati alle prese con l’inflazione
È ormai trascorsa una generazione dai primi anni Novanta, quando l’inflazione ha inaugurato un trend costantemente basso. Un aspetto cruciale del fenomeno è il disallineamento che si è venuto a creare tra il tasso di disoccupazione e l’inflazione salariale. Perché?

Una delle tesi più accreditate è che numerosi fattori strutturali abbiano mantenuto basse le retribuzioni, dalle tecnologie rivoluzionarie che hanno fatto esplodere l’economia del precariato ai cambiamenti demografici a livello mondiale. Altri fattori in gioco possono essere il minor potere negoziale da parte dei lavoratori e l’indebolimento dei sindacati rispetto agli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Nel frattempo, l’inflazione si è mantenuta bassa perché l’innovazione tecnologica sconvolge i modelli economici tradizionali e inasprisce la concorrenza, costringendo i fornitori ad arginare i prezzi.
In prospettiva, questo è il contesto che i mercati dovranno affrontare e da cui sorge spontanea una domanda: l’inflazione tornerà a crescere più di quanto non si sia previsto?

Anche se alcuni dei fattori sopra esposti potranno modificarsi, determinando un rialzo dell’inflazione (in particolare negli Stati Uniti), il nostro scenario di riferimento prevede che le retribuzioni resteranno basse, intorno al 2-3%, e che l’inflazione statunitense aumenterà lievemente nei prossimi anni, ma senza eccedere il 2%-2,5%. I rendimenti saliranno di conseguenza, ma non ai livelli osservati prima degli anni Novanta.
A questo i mercati reagiranno con un persistente nervosismo e noi investitori dobbiamo esserne coscienti. E così, il timore è sempre lì e, con esso, anche un elemento di irrequietezza dei rendimenti obbligazionari e il conseguente impatto sulla valutazione delle azioni. Pare, tuttavia, che lo scenario di rendimenti “bassi più a lungo” resti plausibile.

L’effetto dirompente delle dinamiche geopolitiche
Le misure di QE messe in atto a partire dal 2009 devono ancora essere revocate in molte aree e questo tema, insieme alle questioni geopolitiche (tra cui una potenziale inversione della globalizzazione, che per decenni ha apportato benefici a economie e mercati), costituirà una fonte di preoccupazione per i mercati.
La fragilità del mercato è un problema meno grave per gli Stati Uniti, dove la decisione di iniziare a smantellare il QE deve ancora dimostrare la sua carica dirompente; tuttavia, le politiche portate avanti da Trump potrebbero procurare qualche grattacapo. Gli stimoli e le riforme fiscali, per quanto favorevoli al mercato nel breve periodo, a lungo andare potrebbero alimentare l’inflazione. A fronte delle pressioni esercitate da Trump per l’introduzione di dazi sulle importazioni, e la conseguente minaccia di una guerra commerciale, che solleva rischi di contromisure da parte della Cina e di altri paesi, gli Stati Uniti potrebbero assistere a un rialzo dell’inflazione associato al rallentamento dell’economia globale.
In Giappone si è assistito a un miglioramento della corporate governance, con una gestione societaria che tiene sempre più conto dell’interesse degli azionisti, il che rappresenta uno sviluppo davvero positivo. Il mercato non è caro e lo yen si è rafforzato, ma, a differenza degli USA, deve ancora scontare l’abbandono del programma di QE.

In Europa ci è voluto molto più tempo per adottare un programma di QE e la revoca degli stimoli non è stata ancora attuata completamente. Guardando all’UE nel suo complesso, si potrebbe parlare di stabilità, ma permangono ancora timori legati ad alcuni paesi, ossia la Spagna, l’Italia e, naturalmente, la Grecia. Ognuno di questi paesi può rappresentare una fonte di gravi problemi per l’area dell’euro. La coalizione tedesca, almeno, è un fattore positivo. La Brexit, naturalmente, incombe sull’Europa e sul Regno Unito e ancora non è chiaro come sarà risolta la situazione. Da una parte, c’è la prospettiva di una Brexit drastica; dall’altra, un’unione doganale con lo spettro di Jeremy Corbyn come primo ministro. In mezzo, di tutto e di più. Come finirà non ci è ancora dato sapere.

Conclusioni
Con il passare del tempo, constatiamo che vi sono le premesse per un ulteriore periodo di crescita “più bassa più a lungo”, ma con i limiti esistenti già durante la turbolenza economica del 2009: incertezza e preoccupazione continue. La globalizzazione, o quanto meno il libero scambio, sono stati un bene per l’economia, un bene per l’Europa e un bene per i mercati emergenti, ma la loro messa in discussione ora è la principale fonte di preoccupazione per i mercati. I leader carismatici di alcuni paesi, come la Russia, la Cina e l’Arabia Saudita (e, secondo alcuni, gli USA), stanno adottando atteggiamenti sempre più dittatoriali. Anche le scelte che questi e altri governi stanno compiendo, su dazi doganali, guerre commerciali e Brexit, sono incentrate sulla limitazione del libero scambio. Questo non andrà a vantaggio dei mercati e il muro della paura continuerà a incombere su di noi.

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