Investimenti: quando le buone notizie sono cattive notizie

“La situazione al momento è piuttosto confusa: sembra che le buone notizie danneggino i mercati e che le cattive notizie li favoriscano, oppure ciò che occorre sono solo dati economici migliori?”. A farlo notare è Thomas Tilse, Director e Head of Portfolio Strategy Private Clients di Allianz Global Investors, che di seguito illustra la view nei particolari.

Nelle scorse settimane, in diverse occasioni, presunti annunci negativi come il recente incremento dei tassi da parte della banca centrale statunitense, hanno innescato un rialzo dei mercati. Talvolta è accaduto il contrario: ad esempio, notizie molto favorevoli relative al mercato del lavoro USA hanno provocato una correzione.

Per quale motivo? Le ragioni sono molteplici. Partiamo innanzitutto dalla lotta all’inflazione, che al momento si conferma il principale obiettivo della politica economica. Tutto ciò che serve a contenere l’inflazione, dall’incremento dei tassi di interesse alla debolezza del sentiment, viene recepito positivamente dai mercati azionari.

Per contro, indicatori anticipatori incoraggianti alimentano i timori che la Fed possa mantenere una linea restrittiva per un periodo di tempo prolungato e quindi hanno un effetto negativo, perché implicano che i tassi continueranno a salire e si manterranno elevati ancora per qualche tempo. Dopo il recente e consistente inasprimento di 75 punti base, i future nel mercato obbligazionario hanno già iniziato a scontare una flessione dei tassi per il 2023, partendo dal presupposto che i tassi elevati possano frenare l’economia già alla fine di quest’anno e che in previsione di una recessione la Fed possa iniziare ad abbassarli già il prossimo anno.

Il mercato è quindi sempre un passo avanti, anzi due

La correlazione fra mercati azionari e mercati obbligazionari è tuttora positiva: quindi, quando scendono i tassi e aumentano i corsi obbligazionari salgono anche le quotazioni azionarie, e viceversa. Ed è proprio con tale situazione che si scontrano gli investitori quest’anno: entrambe le asset class hanno performance negative e non è possibile beneficiare della diversificazione. Le dichiarazioni del Presidente della Federal Reserve statunitense (Fed) Powell vengono dunque pesate col bilancino di precisione.

Per gli investitori l’ideale sarebbe che le misure restrittive della Fed agissero in tempi brevi contro il mostro dell’inflazione. Ma non è così semplice. Il ritorno alla cara vecchia politica monetaria accomodante non sarà repentino. Alcuni driver di inflazione potrebbero rivelarsi ostinati. Ad esempio, la trasformazione e l’adeguamento delle infrastrutture e dei processi produttivi legati alla lotta al cambiamento climatico hanno un costo e alimentano l’inflazione. I mercati del lavoro si confermano compatti e la spirale salariale non può essere fermata velocemente, soprattutto negli USA, ma anche in Germania.

Anche nel settore immobiliare, i prezzi vanno verso un possibile assestamento, ma restano comunque elevati, specialmente nell’edilizia residenziale. La situazione sulle filiere mondiali inizia pian piano a distendersi e i costi dei container diminuiscono, tuttavia le imprese dei Paesi del G7 che non vogliono correre rischi stanno cominciando a rilocalizzare alcune produzioni. Ma il rimpatrio costa. L’andamento demografico contribuisce anch’esso ad alzare i costi salariali, dato che la forza lavoro è sempre meno giovane.

Allo stesso tempo, le previsioni sul ciclo economico, in base al rallentamento previsto da importanti istituti verso fine anno, lasciano sperare in un calo dei tassi di inflazione. Citiamo anzitutto la Cina, la cui politica zero Covid a colpi di lockdown, con conseguente calo della produzione industriale, ha contribuito a una distensione nei mercati di alcune materie prime, tra cui rame e petrolio. Il prezzo del rame è infatti inferiore del 20% rispetto a inizio anno, mentre il petrolio viaggia verso gli 80 dollari al barile negli USA ed è sceso sotto i 90 dollari al barile in Europa. Tale evoluzione sorprende a fronte delle previsioni di un considerevole incremento dei prezzi dell’energia formulate solo la scorsa estate alla luce della guerra in Ucraina. Anche la quotazione del grano si attesta appena sopra il livello di inizio anno, nonostante l’Ucraina sia il maggior produttore di grano al mondo. Partendo dagli attuali livelli di prezzo, è quindi probabile che il prossimo anno le componenti degli indici dei prezzi legate alle materie prime, e in particolare al petrolio, registreranno incrementi inferiori su base annua contribuendo al contenimento dei tassi di inflazione. Potremmo quindi assistere a un rallentamento dell’inflazione attorno al 3,5% entro la fine del 2023, indipendentemente dalle dinamiche strutturali e cicliche.

La settimana prossima

La prossima settimana i prezzi al consumo della Germania e dell’Eurozona ci daranno un’idea più chiara circa la situazione attuale. Le attese circa i dati armonizzati dell’UE convergono verso l’8,8% in settembre, che è comunque un dato molto elevato. Gli indicatori del sentiment dei consumatori e delle aziende (ifo) daranno ulteriori delucidazioni sull’interpretazione dell’inflazione e dell’inasprimento dei tassi. Negli Stati Uniti saranno rese note le statistiche sulla spesa al consumo di agosto; particolarmente attesi il deflatore come parametro dell’inflazione e il livello della fiducia dei consumatori in settembre.

Ma continuiamo a chiederci: le cattive notizie favoriranno le Borse e quelle buone le affosseranno? Forse. I dati in uscita la prossima settimana dovrebbero confermare la solidità dell’economia USA, in ragione di un mercato del lavoro robusto e di una spesa al consumo sostenuta. Tale evoluzione potrebbe essere interpretata negativamente in termini di timori per l’aumento dell’inflazione e il rialzo dei tassi. In ogni caso, in ottobre con la pubblicazione dei risultati aziendali del terzo trimestre potremo tornare a concentrarci sugli utili: e non dimentichiamo che a quel punto dati di bilancio positivi potranno sostenere le quotazioni azionarie, come sempre.

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