Asset allocation: addio “TINA”, si torna al “TARA”

Il forte e impressionante rialzo dei tassi statunitensi e globali, sia nelle aspettative che nella parte a lungo termine della curva dei rendimenti, ha portato alla maggior parte degli attuali problemi sui mercati. L’invasione dell’Ucraina non ha aiutato, in particolare per l’impatto sui prezzi dell’energia, ma non è il principale responsabile dei nostri malesseri. Gli ultimi sviluppi sui tassi e sul Forex hanno costretto alcune banche centrali, come la Banca d’Inghilterra o la Banca del Giappone, a intervenire sui mercati per ripristinare una certa stabilità finanziaria: il funzionamento dei mercati è certamente un obiettivo non negoziabile per ogni banca centrale, soprattutto quando si tratta di obbligazioni o valute.

In questo scenario, ecco di seguitola view di Fabrizio Quirighetti, direttore investimenti di Decalia.

Nel frattempo, l’aumento dei tassi continua a rappresentare un importante vento contrario per i mercati azionari per diverse ragioni che cercherò di elencare qui di seguito. A parità di altre condizioni, i tassi elevati spingono al ribasso la valutazione dei titoli azionari, soprattutto per quelli a “lunga durata”, in quanto un aumento del tasso di “rischio” utilizzato per scontare i flussi di cassa futuri (e gli utili) riduce il valore corrente di un titolo.

Lo stile di crescita, e in particolare il settore tecnologico non redditizio, ne ha risentito pesantemente dall’inizio dell’anno. Supponendo che i tassi inizino a stabilizzarsi da questo momento, la maggior parte di tale impatto sarebbe ormai alle spalle, ma i rischi rimangono comunque orientati al rialzo (per i tassi) nel breve termine, date le persistenti pressioni inflazionistiche e l’atteggiamento stringente delle banche centrali. Le mie preoccupazioni sono addirittura esacerbate dall’attuale orientamento della politica fiscale, che si scontra con gli sforzi dei banchieri centrali: il pacchetto fiscale aiuta le famiglie e le imprese a sostenere costi più elevati (energia, mutui o altro), ritardando quindi la necessaria distruzione della domanda per far scendere le pressioni inflazionistiche.

In altre parole, non ci sono solo rischi di rialzo rispetto al livello massimo dei tassi, ma anche un potenziale ritardo temporale (più tardi che presto) con i relativi rischi di errori politici di un eccessivo irrigidimento, poiché le banche centrali vogliono vedere adesso prove convincenti di un calo dell’inflazione (invece di guardare avanti per definire l’attuale politica monetaria). 

Di conseguenza, questo contesto di tassi più elevati aumenta ovviamente il rischio di recessione, poiché la politica monetaria restrittiva rallenta l’economia, soprattutto quando i tassi reali a lungo termine si spostano in territorio positivo.

Di riflesso, la crescita degli utili a un certo punto dovrebbe diventare negativa. Come ha scritto Morgan Stanley: “La luce alla fine del tunnel è un treno di recessione degli utili che la Fed non può fermare”. Supponendo che il denominatore del lato U del multiplo del rapporto prezzo-utili (P/U) si riduca, ciò trascinerà meccanicamente al ribasso anche i prezzi delle azioni al fine di mantenere un P/U teoricamente costante. Inoltre, quando i mercati azionari sperimentano una recessione degli utili, anche la valutazione delle azioni (P/U) tende a essere spinta al ribasso, date le incertezze, il sentiment negativo e il posizionamento molto debole quando i mercati toccano il fondo…

Infine, ma non per questo meno importante, l’aggressivo atteggiamento stringente della Fed, unito ai problemi che circondano le altre grandi economie (guerra e crisi energetica in Europa o frenata della Cina), ha portato a un forte apprezzamento del biglietto verde. Poiché circa il 40% del fatturato dell’S&P500 proviene dall’estero, questo dollaro forte (conseguenza collaterale dell’aumento dei tassi USA, della modalità risk-off, della crisi energetica, ecc…) rappresenta un ulteriore vento contrario per le azioni statunitensi.

Dollar Index: un dollaro più forte ridurrà anche gli utili delle società Usa

Infine, il ritorno di rendimenti dignitosi sia sulla liquidità che sui rendimenti obbligazionari esercita un certo svantaggio competitivo per le azioni.

Il TINA (There Is No Alternative) ha ormai lasciato il palazzo, mentre è tornato il TARA (There Is Reasonable Alternative)

Alcuni, come noi, hanno già iniziato a costruire posizioni nella parte anticipata della curva (fino a un massimo di 5 anni) con nomi di qualità top IG. Tuttavia, finché l’inflazione e l’inasprimento della politica monetaria rimarranno nei titoli di testa, gli investitori non si precipiteranno probabilmente sui titoli di Stato a lunga scadenza. Tuttavia, quando i timori di recessione supereranno le preoccupazioni per l’inflazione, gli investitori potrebbero tornare a considerarli… così come i titoli azionari di tipo growth. Ma non siamo ancora a quel punto (purtroppo).

La fine dell’era del denaro a buon mercato: TINA ha lasciato il palazzo mentre TARA è ritornata

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