Investimenti: attenzione al rischio di un errore di politica monetaria

Inflazione e banche centrali sono stati i fattori dominanti sui mercati lo scorso anno. All’inizio del 2022 le principali banche centrali consideravano l’inflazione come transitoria e hanno finito per rincorrerla con rialzi massicci dei tassi d’interesse che non si sono ancora conclusi. Proprio questo ritardo rappresenta un rischio: i banchieri centrali sanno che la loro credibilità è in gioco e questa pressione potrebbe portare a rialzi eccessivi, finendo per minare i fondamentali economici.

Da qualche mese gli indicatori economici suggeriscono come i prezzi al consumo continuino a salire, ma a un ritmo più lento. Negli Stati Uniti il picco sembra essere alle spalle: a dicembre l’inflazione è stata del 6,5%, che si confronta con un massimo del 9,1% raggiunto lo scorso giugno. Forse anche in Europa il peggio è passato, anche grazie alla riduzione dei prezzi del gas. A dicembre l’inflazione era del 9,2%, molto elevata ma in forte riduzione dopo diversi mesi sopra il 10%.

La curva dei tassi d’interesse in dollari è invertita, vale a dire che i tassi a un anno sono molto superiori a quelli su scadenze più lunghe. Il mercato insomma suggerisce che non sia più l’inflazione il problema, bensì l’andamento economico. Proprio l’impatto dei tassi d’interesse più elevati sui settori ad alta intensità di capitale e leva finanziaria, tra i quali spiccano immobiliare e costruzioni, potrebbe frenare l’attività economica. Tipicamente questo avviene 6-12 mesi dopo i primi rialzi dei tassi.

A dicembre le principali banche centrali hanno continuato ad alzare i tassi, seppur passando da aumenti «emergenziali» da 75 punti base a 50. Ma allo stesso tempo hanno sorpreso il mercato promettendo ulteriori rialzi per un periodo indefinito e, di conseguenza, alimentando le preoccupazioni degli investitori per l’andamento economico – e, nel caso della zona euro, per una maggiore frammentazione finanziaria, vale a dire l’aumento dello spread di alcuni Paesi.

Questi rischi effettivamente per il momento non si sono materializzati, i consumi hanno tenuto meglio del previsto e non si sono registrate particolari tensioni sui mercati finanziari.

L’inflazione americana è infatti creata dalla domanda interna, particolarmente forte anche per via degli stimoli fiscali varati a partire dall’inizio della pandemia nonché lo scorso anno, come l’Inflation Reduction Act e la proposta di abbuonare parte degli student loan, i prestiti contratti per accedere all’istruzione universitaria.

La Federal Reserve ha confermato i primi segnali di rallentamento dell’inflazione, ma ha preferito mantenere alta la guardia suggerendo che i tassi debbano salire oltre il 5% in considerazione di un mercato del lavoro all’apparenza surriscaldato sulla base dei nuovi posti di lavoro creati.

Vi è anche un’altra chiave di lettura però che suggerisce un quadro meno roseo: gli aumenti salariali sono molto inferiori rispetto all’inflazione e vi è quindi una riduzione consistente delle retribuzioni in termini reali. Le famiglie hanno compensato questa situazione riducendo la quota di reddito risparmiata e lavorando di più, e infatti il tasso di occupazione è aumentato. Inoltre, molte aziende come Goldman Sachs, Amazon, Meta e Twitter hanno annunciato ampie riduzioni del personale.

La situazione europea è in parte diversa perché una fetta consistente dell’inflazione è generata dalle importazioni, ovvero dai costi di energia e materie prime, mentre la domanda interna non registra eccessi paragonabili a quelli americani. Anche se i recenti dati economici sono stati migliori delle aspettative, la dipendenza energetica dall’estero e la vicinanza con la guerra in Ucraina rendono la situazione europea più fragile.

Tuttavia, la Banca centrale europea (BCE) ha inviato un messaggio molto netto spostando in alto il possibile picco dei tassi d’interesse l’anno prossimo a ben oltre il 3%. Pochi giorni fa alcuni esponenti dell’istituto hanno ribadito che l’inflazione non scenderà autonomamente e che «i tassi dovranno salire significativamente» rispetto al livello attuale.

Queste dichiarazioni vanno contestualizzate perché esse stesse influiscono sull’andamento della curva dei tassi d’interesse e quindi sui tassi a lungo termine. Quindi, dichiarazioni più accomodanti diluirebbero l’impatto delle attuali politiche monetarie restrittive. Inoltre, la governance della BCE è complessa e riflette al suo interno posizioni diverse tra le quali occorrerà fare una sintesi.

Tuttavia, il rischio di aumenti dei tassi esagerati in un contesto d’inflazione in discesa esiste e probabilmente è tra le aree più sotto osservazione da parte degli investitori: se un anno fa i mercati si preoccupavano dell’inflazione, oggi si preoccupano invece delle banche centrali.

Il forte aumento dei costi di finanziamento potrebbe portare a un rallentamento dell’attività immobiliare e, in alcuni Paesi dove si registra un indebitamento elevato, a una correzione dei prezzi. Nel Nord Europa il valore dei mutui rispetto al prodotto interno lordo (PIL) è molto elevato, addirittura superiore all’80% nei Paesi Bassi, mentre in Italia è meno di un terzo del PIL. Lo spread sui titoli di Stato del Sud Europa, BTP in primis, e il Bund non ha risentito particolarmente delle dichiarazioni della BCE. Probabilmente il buon andamento delle entrate fiscali e il fatto che l’indebitamento si riduca anche quest’anno rassicurano i mercati, almeno nel breve termine.

Il vero banco di prova sarà la riduzione dello stock di titoli di Stato detenuti dalla BCE a partire da marzo a un ritmo di circa 15 miliardi di euro al mese, in un contesto di molti titoli in scadenza da rimpiazzare proprio nella prima parte di quest’anno.

Va detto che l’atteggiamento della BCE è motivato anche da un certo ottimismo rispetto all’andamento dell’economia: infatti le sue stime sono molto superiori a quelle di consenso (media delle stime degli economisti) per quanto riguarda sia la crescita (addirittura doppia nelle proiezioni della BCE rispetto al consenso nel periodo 2023-25) che l’inflazione.

Un atteggiamento così restrittivo in presenza di un andamento positivo dell’economia si può giustificare, ma se ci fosse un rallentamento più marcato questa volta la BCE dovrà dimostrare rapidità e pragmatismo sufficienti a evitare un errore di politica monetaria che potrebbe costare una recessione e mettere in difficoltà alcuni emittenti.

A cura di Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer di UBS WM Italy

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