Investimenti: il nuovo paradigma 2.0

L’adozione di un paradigma di interpretazione della realtà è un’operazione intellettualmente faticosa. Bisogna abbandonare le certezze consolidate (si pensi a quando si abbandonò la teoria geocentrica a favore di quella eliocentrica) e risistemare tutte le conoscenze sparse dentro una nuova cornice coerente. Per questa ragione, quando un paradigma comincia a mostrare delle crepe, ovvero quando alcuni fatti cominciano a farsi trovare al di fuori della cornice del paradigma, si tende a ignorarli o comunque a minimizzarli, anche se sono fastidiosi.

Il paradigma del bear market dell’anno scorso era basato sull’idea dell’inflazione non transitoria, che avrebbe potuto essere battuta solo con un forte rialzo dei tassi e una recessione. A partire da novembre si è però formato un nuovo paradigma, che in gennaio è diventato dominante.

Le idee alla base della nuova teoria sono le seguenti:

  1.  l’inflazione non è più un problema serio, sta calando velocemente, si è addirittura azzerata nei beni materiali e sta ridimensionandosi nei servizi. Il rialzo dei tassi ha ridimensionato le attese di inflazione e questo garantisce il ripristino imminente del quadro monetario pre-Covid, ovvero del 2 per cento come obiettivo d’inflazione credibile per tutti;
  2. le banche centrali stanno concludendo il ciclo rialzista dei tassi d’interesse, già scontato nei prezzi di mercato, mentre si avvicina il momento (prima della fine di quest’anno) in cui inizieranno a tagliarli;
  3. l’economia globale ha retto bene al Covid, alla guerra e alla normalizzazione monetaria. La recessione non ci sarà o sarà leggera. In ogni caso, per ora, quello che si vede è un mercato del lavoro solido e una crescita addirittura in accelerazione in America, Europa e Asia.

Il nuovo paradigma si è tradotto in un importante recupero del valore degli asset finanziari, giustificato dalle sorprese positive che si sono susseguite sull’inflazione e sulla crescita.

Ora però alcuni elementi cominciano a trovarsi al di fuori di questo quadro. La conseguenza è che delle tre tesi di fondo del nuovo paradigma solo la terza, quella della crescita, tiene ancora bene. La prima e la seconda mostrano invece delle crepe.

L’inflazione è in risalita. Quella che sembrava una marcia trionfale verso il 2 per cento torna a essere un percorso accidentato. Nessuno ipotizza un ritorno ai massimi dei mesi scorsi, naturalmente, ma l’inflazione nei servizi, che si credeva già scesa al 3% (parliamo sempre degli ultimi tre mesi annualizzati, non dell’inflazione anno su anno, che è storia antica), dopo le revisioni e gli ultimi dati è indicata invece al 4%, che sarà verosimilmente confermato nei dati che usciranno il mese prossimo.

Anche le materie prime mostrano segni di recupero e solo la ripresa della vendita delle riserve strategiche americane impedisce alla più importante di tutte, il petrolio, di tornare a salire.

Le banche centrali, che nelle ultime settimane avevano sfumato la loro guidance abbassando di fatto il tasso terminale atteso dai mercati, si trovano ora di nuovo in una posizione scomoda. I mercati cominciano a capire che la linea dura dell’ultimo anno è stata alla fine meno severa di quanto si è creduto. Le banche centrali hanno alzato la voce per abbassare le attese d’inflazione, arrivando a ostentare indifferenza rispetto all’ipotesi di una recessione, ma nei fatti hanno tollerato un allentamento delle condizioni finanziarie a partire da ottobre. La liquidità è rimasta abbondante e le banche centrali giapponese e cinese hanno compensato il Quantitative tightening della Fed. Come ha poi notato David Zervos, il fatto che le banche centrali si siano riempite di bond durante la pandemia ha fatto sì che le perdite dei corsi obbligazionari siano state per metà socializzate, contribuendo a evitare gli incidenti finanziari che normalmente accompagnano i cicli di rialzo dei tassi.

Si profila allora all’orizzonte per il futuro prossimo una revisione del nuovo paradigma. Non un suo abbandono, ma un aggiustamento.

Riformulandolo, il paradigma potrebbe diventare più o meno questo:

  1. nemmeno sotto tortura le banche centrali diranno che il 4% è il nuovo 2% come target di inflazione. Il 2 resterà, ma sullo sfondo. Nel frattempo, mercati e banche centrali accetteranno nei fatti senza troppi drammi che la vita continui a scorrere con un’inflazione core che si stabilizza tra il 3 e il 4 per cento;
  2. la Fed, che fin qui ha reso neutrale (da straordinariamente espansiva che era) la sua politica monetaria, non abbasserà i suoi tassi e continuerà ad alzarli con prudenza, se non altro per mantenere il controllo della situazione;
  3. la recessione, nello scenario di base, non ci sarà. Se ci sarà, sarà per fattori esogeni, non per volontà della Fed. Per raggiungere il 2 per cento si adotterà cioè la linea della disinflazione opportunistica di Greenspan. Powell, dunque, non sarà né il nuovo Burns né il nuovo Volcker, ma il nuovo Greenspan che non provoca recessioni a freddo ma attende le esogene per completare il ciclo di disinflazione.

Se così sarà, le Borse dovranno compensare uno scenario meno negativo (se non neutrale) sugli utili con una modesta pressione sui multipli.

Gli anni della disinflazione opportunistica di Greenspan furono accompagnati da un grande rialzo degli asset finanziari. Oggi le condizioni sono però meno favorevoli. Le politiche fiscali saranno meno virtuose di allora (riarmo oggi, disarmo allora) e l’energia, che nei decenni successivi alle crisi petrolifere degli anni Settanta fu abbondante e a buon mercato, sarà più costosa.

Venendo al breve termine, il rialzo iniziato in ottobre ha ora bisogno di una sosta. Ne ha bisogno tecnicamente, ma ne ha bisogno soprattutto per potere verificare e ritarare le attese su inflazione e tassi. Detto questo, non sembrano esserci i presupposti per una correzione profonda, visto l’andamento positivo dell’economia globale.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e Il Nero)

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