Investimenti, ecco perchè non bisogna mai combattere la Fed

Dopo un gennaio inaspettatamente forte, il rally su larga scala di cui hanno goduto i risk asset da ottobre dello scorso anno si è finalmente fermato a riprendere fiato e abbiamo assistito a un ragionevole ritracciamento in molti settori del reddito fisso. Il recente sell-off è stato guidato in parte da un aumento delle aspettative sui tassi terminali del mercato, ma forse soprattutto da un riallineamento dei prezzi di mercato seguendo la retorica “higher for longer” delle principali banche centrali.

In questo quadro, ecco di seguito la view di Felipe Villarroel, partner e gestore di portafoglio di TwentyFour AM.

L’aggiustamento è stato particolarmente accentuato nei Treasury statunitensi. La curva degli US Treasuries sta ora valutando un tasso terminale dei Fed Funds del 5,4% intorno alla metà del 2023, rispetto al 4,9% di inizio febbraio. La variazione delle aspettative sui tassi a più lungo termine è stata ancora più pronunciata, con il 5% di tasso sui Fed Funds ora previsto per gennaio 2024, dopo che solo poche settimane fa era sceso al 4,17%.

A nostro avviso, solo una parte di questo spostamento è giustificata. In precedenza i mercati avevano previsto tre o quattro tagli da parte della Fed entro la fine di quest’anno, che sono sempre sembrati piuttosto ambiziosi anche dopo una serie di buone notizie sull’inflazione. Gli investitori si sono finalmente rassegnati al messaggio da falco della Fed ed è logico che i rendimenti reagiscano di conseguenza.

Tuttavia, più di ogni altra cosa, sono stati i dati sui non-farm payrolls di gennaio (517.000 posti di lavoro aggiunti contro i 190.000 del consensus) a innescare questa mini-correzione, e l’aspetto interessante di questi numeri è stata l’entità dell’aggiustamento stagionale.

In sintesi, le aziende assumono più personale verso la fine dell’anno per far fronte alla domanda aggiuntiva del periodo festivo; vengono acquistati più beni che devono essere trasportati e vengono forniti più servizi con un maggior numero di eventi aziendali e familiari. A gennaio, le aziende riportano la loro forza lavoro alla “normalità” e questo accade ogni anno nello stesso periodo. Il Bureau of Labour Statistics (BLS) applica quindi un adeguamento alla stagionalità. Si tratta di una pratica standard, il cui obiettivo è essenzialmente quello di fornire un numero più “chiaro”, cioè che elimini le ovvie fluttuazioni dovute al periodo dell’anno in cui vengono raccolti i dati. La variazione grezza (non destagionalizzata) dei Non-Farm Payrolls (NFP) per gennaio è stata un calo di 2,5 milioni di posti di lavoro, mentre il numero destagionalizzato ha mostrato un aumento di circa 0,5 milioni, con un aggiustamento di circa 3 milioni di posti di lavoro.

Non mettiamo in dubbio la validità dell’aggiustamento, ma a nostro avviso l’interpretazione corretta del dato di gennaio è che le aziende hanno lasciato andare meno persone del solito, in contrapposizione alla narrazione delle aziende che hanno assunto molte più persone del solito che ha preso piede in alcuni ambienti.

La prima interpretazione è chiaramente meno ottimistica e non rappresenta l’inizio di una nuova tendenza. La spiegazione più probabile è che, viste le difficoltà incontrate nel riassumere dopo il COVID, le aziende statunitensi siano diventate più riluttanti a ridurre la propria forza lavoro. Prima della pubblicazione dei dati NFP di gennaio, la tendenza era quella di un declino nella creazione di posti di lavoro dai picchi della metà del 2022 fino a una cifra di circa 200-250k al mese. Si tratta ancora di un numero elevato, che dovrà continuare a scendere prima che la Fed si senta sicura di aver eliminato il surriscaldamento del mercato del lavoro, ma è molto diverso da 500 mila unità al mese. Inoltre, negli ultimi 12 mesi i numeri dei NFP sono stati soggetti a revisioni importanti e, sebbene sia quasi impossibile prevedere quale sarà il dato di febbraio quando verrà pubblicato il prossimo 10 marzo, è molto probabile che si assista a un’ampia inversione di tendenza.

Anche i dati sull’inflazione e sulla crescita hanno svolto un ruolo importante. Sebbene a gennaio l’inflazione core e quella headline siano state entrambe in linea con le aspettative, i dati dello 0,4% e dello 0,5% rispettivamente sono stati relativamente elevati rispetto alle statistiche recenti. La disinflazione dei prezzi dei beni di base continua, ma a un ritmo più lento, mentre l’inflazione dei servizi presenta ancora valori elevati per gli alloggi e i fitti figurativi (Owners’ Equivalent Rent). Se analizziamo le sottocomponenti dell’indice ISM dei produttori, possiamo notare che i prezzi del settore manifatturiero continuano a diminuire, ma mentre i prezzi dei servizi continuano a indebolirsi, la tendenza al ribasso si è in qualche modo arrestata.

Va sottolineato che questo è più o meno ciò che la Fed aveva previsto negli ultimi mesi. La disinflazione dei beni ha ancora un po’ di spazio per continuare a scendere, ma il ritmo del declino probabilmente rallenterà con l’esaurirsi degli effetti della pandemia, mentre l’inflazione dei servizi sarà più difficile sia a causa degli alloggi e fitti figurativi (OER) sia a causa di altri servizi che hanno più a che fare con i salari nel contesto di un mercato del lavoro caldo. Per quanto riguarda la crescita, le vendite retail sono state forti e più recentemente l’indice Markit PMI dei servizi è rimbalzato inaspettatamente al di sopra della soglia di 50,0 (la soglia che indica la crescita) per la prima volta da giugno. Pur non ignorando questi dati, riteniamo che il clima più mite possa aver influito sulle vendite al dettaglio, mentre la misurazione Markit PMI si è avvicinata un po’ di più al sondaggio ISM sui servizi dopo una recente divergenza molto ampia tra i due.

Cosa significa questo per la nostra visione sull’economia statunitense e sulla Fed? Pensavamo che i tagli dei tassi prezzati nelle curve a gennaio sarebbero stati probabilmente corretti a un certo punto, soprattutto alla luce del messaggio coerente che abbiamo sentito dalla Fed negli ultimi mesi. L’inflazione non si sarebbe mai moderata in linea retta – lo stesso presidente della Fed, Jerome Powell, ha affermato nella conferenza stampa di inizio mese che i cali mensili registrati alla fine dell’anno scorso avrebbero potuto rafforzarsi leggermente nella prima metà di quest’anno, quando la rapida deflazione dei beni che abbiamo visto dopo il COVID ha iniziato a normalizzarsi. Tuttavia, prevediamo ancora un calo dell’inflazione, in quanto le parti più tenaci del paniere dell’inflazione iniziano a risentire degli effetti dei 425 punti base di rialzo dei tassi messi in atto lo scorso anno, e ci aspettiamo una crescita ben al di sotto del trend nel 2023. È importante notare che, dato che le previsioni sui tassi terminali sono ora significativamente al di sopra della stima della Fed sul tasso neutrale, qualsiasi cambiamento in queste previsioni diventa più incrementale, e i mercati hanno reagito bene a quest’ultimo riprezzamento delle aspettative sui tassi. I rendimenti “all-in” rimangono elevati rispetto ai livelli storici e, a nostro avviso, continuano a risultare interessanti alla luce del quadro macro più stabile emerso dall’inizio dell’anno.

Abbiamo assistito a un ragionevole ritracciamento dei prezzi degli asset sulla base di alcuni dati, ma non pensiamo che tali dati cambieranno il modo in cui la Fed condurrà la sua politica, e sembra anche un po’ più probabile del solito che assisteremo a una certa inversione di tendenza in occasione del numero NFP di febbraio e di alcuni numeri di attività come le vendite al dettaglio. La dipendenza dai dati rimane il fulcro del gioco.

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