Investimenti: i pro e i contro di un portafoglio multipolare

La politica estera americana è fatta da numerosi protagonisti, Casa Bianca, National Security Council, Cia e i dipartimenti di Stato, Difesa, Tesoro e Commercio. Accanto a questi organi dell’esecutivo, che assumono il colore politico del presidente in carica, ci sono il Congresso (a dire il vero non particolarmente influente) e, da un secolo, un think tank, il Council on Foreign Relations, formalmente privato ma a tutti gli effetti stanza di compensazione bipartisan e centro di elaborazione strategica degli interessi globali degli Stati Uniti.

È difficile sopravvalutare il peso di questa istituzione ed è per questo particolarmente interessante la presa di posizione del suo presidente Richard Haas, che nei giorni scorsi, insieme a Charles Kupchan, ha pubblicato su Foreign Affairs un articolo che invoca una nuova strategia rispetto all’Ucraina. Discostandosi dal radicalismo neo-con, che invoca una guerra a oltranza, i due autori sostengono che gli Stati Uniti possono ancora concedere all’Ucraina qualche mese per tentare una controffensiva, sostenendola con armi più aggressive. Entro fine anno, tuttavia, bisognerà tirare le somme e prendere atto del fatto che nessuno, a meno di sorprese, può vincere questa guerra. In pratica viene proposta una soluzione coreana o cipriota del conflitto, ovvero un cessate il fuoco che fotografa la situazione sul campo e la congela per un tempo indeterminato.

Nell’articolo si propone anche di riconsiderare con la Russia, possibilmente da posizioni di forza, l’architettura della sicurezza europea. In pratica i due autori riconoscono i limiti della potenza americana e quindi, tra le righe, l’esistenza di un mondo multipolare. A riprova della vista lunga del Council on Foreign Relations ricordiamo che Kupchan già nel 2002, quando il consenso descriveva gli Stati Uniti come unica potenza globale, aveva ipotizzato in un libro che il XXI secolo avrebbe rappresentato la fine dell’era americana.

Il corollario geomonetario del mondo multipolare è la dedollarizzazione

Se ne parla molto, forse fin troppo. Due tesi si contrappongono radicalmente. Da una parte si sostiene che il processo di allontanamento dal dollaro è ormai avviato, sta prendendo velocità e vedrà presto produrre cambiamenti strutturali importanti, tra cui la perdita d’interesse da parte del resto del mondo per il debito pubblico americano (con conseguente aumento dei tassi che il Tesoro dovrà offrire o, in alternativa, con la monetizzazione del debito da parte della Fed). Secondo i fautori di questa tesi, al debasing del dollaro corrisponderà la creazione di un blocco valutario alternativo centrato sulla Cina, che potrà contare su una moneta sempre più appoggiata all’oro.

Dall’altra parte si sostiene che questo è solo il wishful thinking degli antagonisti dell’America. La forza del dollaro è evidente dal suo andamento negli ultimi anni e il suo ruolo di valuta di riserva globale non è certo messo in discussione dal quasi impercettibile calo della sua presenza nelle riserve valutarie del resto del mondo. Michael Pettis fa notare che fare da valuta di riserva non è solo l’esorbitante privilegio di chi può fare lavorare il resto del mondo e pagarlo con pezzi di carta. Con il suo disavanzo strutturale delle partite correnti che permette al dollaro di circolare nel mondo, l’America, dice Pettis, si porta in spalla una croce. Con il dollaro tenuto alto dagli acquisti finanziari esteri, o l’America chiude le sue imprese e si tiene milioni di disoccupati, oppure aumenta continuamente il suo indebitamento per sostenere investimenti pubblici domestici, come stiamo vedendo nel caso dei semiconduttori.

Vanno poi considerate, secondo questa scuola di pensiero, le debolezze della Cina, come il continuo crescere del suo debito interno per investimenti in infrastrutture sempre meno necessarie. Il risultato è un’economia che perde efficienza e va appesantendosi.

C’è del vero in entrambe le tesi contrapposte. Da una parte c’è un’innegabile volontà politica in un numero crescente di paesi di allontanarsi dal dollaro. Il sequestro delle riserve valutarie russe crea un precedente considerato pericoloso in molti Paesi che detengono dollari. C’è un grande numero di scambi che vengono ormai regolati in valute diverse dal dollaro (anche se non è chiaro se queste valute vengono poi mantenute nelle riserve o se sono poi convertite in dollari).

Stephen Jen fa poi notare che la presenza del dollaro nelle riserve valutarie globali, se si esclude l’apprezzamento del cambio degli ultimi anni, sta in realtà scendendo sempre più velocemente. In pratica chi aveva dollari li ha tenuti e li ha lasciati apprezzare, ma non ne ha più comprati altri, mentre ha aumentato il peso delle altre valute.

In pratica, la dedollarizzazione c’è, ma è agli inizi e richiede tempi ancora piuttosto lunghi misurabili in decenni, e, soprattutto, la disponibilità cinese a sobbarcarsi gli oneri, e non solo gli onori, di una valuta di riserva.

Che fare come investitori in questo contesto?

Un marziano non avrebbe dubbi e allocherebbe il suo portafoglio terrestre in proporzione al peso economico dei vari Paesi. Con un Pil americano di 23 trilioni e un Pil cinese di 18 terrebbe dollari e renminbi in percentuali quasi uguali.

Per un terrestre che vive all’interno di un blocco sempre più contrapposto all’altro le cose sono molto meno semplici. Come si è visto con la Russia, gli investimenti in Paesi ostili possono essere oggetto di sanzioni. E mentre tradizionalmente i paesi emergenti erano prezzati a sconto rispetto ai paesi occidentali, oggi, spesso, non è più così. L’India è un paese molto promettente, ma il multiplo della sua Borsa è 23 (e due anni fa era arrivato a 36). Il Vietnam è una storia di successo, ma il suo listino è appesantito da carrozzoni statali che non fanno profitti. La Cina è un grande mercato finanziario, ma che cosa succederebbe agli investitori esteri se salisse ulteriormente la tensione su Taiwan? Il Brasile è molto interessante, ma non è ancora chiaro se Lula adotterà le politiche moderate del suo primo mandato o quelle radicali della Rousseff, da lui appoggiata tra il 2011 e il 2016.

Un portafoglio multipolare ha senso perché diversifica i rischi ed espone ad alcune economie con grande potenziale, ma va seguito con particolare attenzione perché non è più esposto solo ai rischi politici dei singoli paesi, ma anche a quelli geopolitici del rapporto tra noi e loro. E mentre un tempo si poteva comprare a occhi chiusi sapendo che non si sarebbe strapagato, oggi bisogna controllare che ci sia valore.

Si può in compenso tenere conto del mondo multipolare, che almeno nella fase di transizione sarà più instabile e conflittuale, nel pensare strategicamente al nostro tradizionale portafoglio euroamericano. Come fa notare Albert Edwards in dissenso con il Fondo Monetario (secondo il quale torneremo presto a una lunga fase di inflazione moderata e tassi bassi) l’inflazione scenderà ciclicamente verso il due per cento per un breve momento, ma ritornerà su livelli più elevati non appena si riprenderà a crescere con una certa forza per effetto della deglobalizzazione, della transizione energetica e del riarmo.

Edwards mette in luce dei punti importanti. Trascura però un aspetto che va emergendo, anche se senza clamore perché avviene su due punti delicati. Le politiche dell’offerta, che sembravano dimenticate dopo l’adozione entusiasta delle politiche della domanda nel 2020-21, sono di nuovo visibili nell’accettazione di nuovi investimenti in combustibili fossili e nell’apertura aggressiva all’immigrazione cui stiamo assistendo in America e in alcuni paesi europei. Moderare il prezzo dell’energia e quello del lavoro potrebbe rendere meno temibile quell’inflazione strutturale che comunque resterà con noi per un lungo periodo.

Venendo ai mercati, la reporting season manda per ora sia segnali di forza (le grandi banche) sia di debolezza (la tecnologia). Siamo ancora agli inizi, ma continuiamo a pensare che, rispetto alle attese fattesi più modeste nel corso delle ultime settimane, l’esito complessivo non sarà deludente. Quanto al rallentamento macro, per ora non è molto marcato. I dati macro deboli, che fino a ieri erano festeggiati dai mercati, a questo punto sono visti come neutri. Più avanti verranno visti negativamente, ma non subito.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e Il Nero)

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