L’economia Usa arranca in attesa degli stimoli fiscali

a cura di Lemanik

“Le promesse elettorali di Trump hanno iniziato a incontrare le prime difficoltà e la bocciatura della riforma sanitaria è un indicatore di come sarà complicato implementare le politiche fiscali espansive senza far aumentare ancora il debito pubblico americano. Credo che per quest’anno le aspettative di stimoli fiscali saranno deluse e tutto sarà rimandato al 2018”. È l’analisi di Maurizio Novelli, gestore Global strategy fund di Lemanik.

Se da una parte le fratture politiche in seno al partito Repubblicano si stanno accentuando, dall’altra gli investitori si troveranno a breve un quadro macro piuttosto debole rispetto alle aspettative. Il Pil degli Stati Uniti del primo trimestre si appresta a chiudere con una crescita compresa tra l’1% e l’1,7% (annualizzata), in netto contrasto con quel 3,5% prospettato per il primo trimestre dai Pmi. Per quanto riguarda le aspettative di crescita decisamente ottimistiche sulla ripresa del ciclo americano, già acquistate a piene mani dai mercati finanziari, occorre evidenziare che a causa delle modifiche strutturali in corso nell’economia Usa dal 2007, la crescita non potrà mai più tornare ai livelli storici del 3%-3,5% che tutti aspettano da tempo. Le politiche monetarie super espansive non sono riuscite a produrre inflazione e crescita sufficienti per uscire dalla stagnazione.

Negli ultimi 18 mesi l’economia americana ha prodotto una crescita media del solo 1,8%. Gli effetti demografici in corso stanno generando un impatto significativo sull’economia Usa che nel giro di 6/7 anni ha perso il 10% di lavoratori attivi e di fronte a questi fenomeni strutturali, le aziende americane hanno fermato gli investimenti e si sono dedicate ai buy back. I multipli del mercato Usa continuano a salire mentre gli utili ristagnano da almeno due anni. Il consenso sostiene che le azioni sono a buon mercato perché le previsioni si basano sul fatto che la crescita Usa tornerà al 3% e ci si ritroverà come prima del 2007. Purtroppo non sarà così. Gli effetti demografici hanno compresso la dinamica della crescita americana e mentre tutti credono che questa debolezza del ciclo sia un minimo da cui ripartire, gli indicatori macro ci dicono che potrebbe essere un massimo da cui scendere. A questo punto si cercherà di intervenire con politiche fiscali espansive che però produrranno un aumento del costo del debito che dovrà finanziarle, con conseguenze negative per il moltiplicatore fiscale e dunque per la crescita a termine.

Siamo arrivati alla fine della corsa e non possiamo uscire dalla “trappola dei tassi a zero” senza pagarne un prezzo. L’aumento dei tassi provocato dall’effetto Trump ha già iniziato a intaccare il ciclo e i dati macro che stanno uscendo evidenziano che l’economia rallenta piuttosto che accelerare. Nel frattempo alcune asset class hanno iniziato a sentire puzza di bruciato. Il dollaro ha fermato la sua corsa in concomitanza con l’aumento dei tassi della Fed, i treasuries hanno arrestato la discesa e si apprestano a iniziare un rimbalzo tecnico, l’oro si rafforza mentre l’equity continua ad ignorare qualsiasi cosa che abbia a che fare con l’economia reale.

Le nostre allocazioni strategiche continuano a privilegiare posizioni short sui mercati azionari che più si sono esposti al reflation trade: Toronto, Uk e Usa. L’oro rimane supportato da un quadro politico, geopolitico e macroeconomico incerto e resta una delle nostre posizioni long, sia come equity che come commodity. Abbiamo tatticamente chiuso le nostre posizioni short sui Bond Usa perché a causa del rallentamento economico in corso ci attendiamo un rimbalzo tecnico. Manteniamo invece una posizione short sui mercati obbligazionari periferici Ue in considerazione del quadro politico europeo e per il fatto che la Bce è entrata in un territorio incerto sulla sostenibilità ed efficacia della politica monetaria in corso.

Sembra che nessuno sia più in grado di voler sostenere un dollaro forte: non lo vogliono forte né gli Stati Uniti né la Cina. Inoltre non riescono a rafforzarlo le promesse della Fed sui tassi e non lo supporteranno i dati macro dei prossimi mesi. A questo punto, dato che le politiche fiscali Usa avranno molte difficoltà ad arrivare in breve tempo, non possiamo escludere che la divisa americana possa essere una delle prime vittime del ritardo del reflation trade.

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