L’insostenibile leggerezza della ripresa, tra gli scampati pericoli europei, e la confusione delle istituzioni Usa

A cura di Pictet Am
A cura di Andrea Delitala, Head of Euro Multi Asset e Marco Piersimoni, Senior Portfolio Manager di Pictet Asset Management
La ripresa che tutti vedono all’orizzonte deve ancora dimostrare la sua sostenibilità: una ripresa degli investimenti sembra plausibile ma, in un’ottica globale, sono i consumi a doversi far carico di prolungare la vita del ciclo economico. L’attuale contraddizione tra dati previsivi, molto positivi, e dati reali, nuovamente in flessione, desta qualche sospetto.
Proviamo a delineare il quadro delle prossime evoluzioni macroeconomiche: da un lato Trump – una minaccia più di facciata che reale data la difficile attuazione nell’immediato delle politiche programmate; dall’altro una Fed che confonde il mercato con comunicazioni poco chiare. Infine l’Europa, che deve mantenere la tutela offerta dalla BCE per non frammentarsi finanziariamente, mentre la politica potrebbe ritrovare l’iniziativa per riprendere il processo di integrazione.
Il Pil globale: illusione o realtà? Dove ci troviamo dal punto di vista della crescita? Secondo Pictet Asset Management gli Usa cresceranno del 2,3%, mentre la crescita mondiale si attesta al 3% divisa tra il 4,4% degli emerging e l’1,9% del mondo sviluppato. La novità è che le economie sviluppate sono abbastanza sincrone e che, per la prima volta da un po’ di tempo, crescono più del potenziale (anche a causa del ridimensionamento di quest’ultimo).
Diversa la situazione per le economie emergenti, che sono in recupero ma ancora sotto il potenziale. Il caveat che va posto immediatamente quando si guardano questi dati incoraggianti sulla congiuntura è che, per essere convincente, la ripresa deve colmare la discrepanza tra dati dei sondaggi e dati reali.
La produzione industriale ha fatto buoni progressi restando tuttavia distante dal tenore dei sondaggi. Ha inoltre mostrato di recente un assestamento se non una flessione, mentre i dati previsivi rimangono robusti. Si tratta forse di ipnosi?
È evidente che ci sia un circolo virtuoso tra dati previsivi, aspettative, legate per esempio alla nuova politica americana, e alcune variabili macro che per un po’ si auto-alimenta. In particolare, per la prima volta dopo diversi anni la ripresa economica sta interessando la crescita degli investimenti. Tuttavia, che la crescita sia sostenibile a valere sugli investimenti non è un fatto scontato. I capex riprendono quando l’obsolescenza del capitale lo richiede, ma gli investimenti da soli non possono fare da driver principale della ripresa in un’epoca in cui i cicli sono ridotti.
La variabile cruciale è rappresentata dalla domanda finale per consumi, senza i quali la ripresa è solo una fiammata destinata a spegnersi.
Sulla ripresa dei consumi globali, tuttavia, incombe una minaccia secolare rappresentata dalla (desiderabile ed utile) innovazione tecnologica, globalizzazione e cambiamenti demografici che sollecitano duramente la capacità di pianificazione (recupero sociale della forza lavoro, politiche redistributive che compensino le crescenti disuguaglianze distributive etc.) delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelle democratiche che hanno orizzonti politici inferiori a quelli necessari per affrontare questi temi. Prova ne sia la resistenza della propensione al risparmio globale a dispetto degli abbondanti misure volte a stimolare la domanda interna.
Rischi protezionismo e inflazione? Sotto controllo. I rischi di uno scenario che ha un lato virtuoso provengono evidentemente dalla parte dell’agenda di Trump più regressiva ovvero quella protezionistica, la quale porta con sé una componente distruttiva anche per la crescita di chi la opera per primo. L’agenda di Trump è tuttavia stata rallentata dai recenti stop posti dal Congresso su immigrazione, Obamacare e lo stesso protezionismo, che potrebbe dunque essere parte di una strategia negoziale: la minaccia del protezionismo usata per ottenere dollaro debole.
C’è poi il tema dell’inflazione: è salita come previsto, ma a guardare i dati annuali pare che il picco di tutti i CPI del mondo, dovuto all’effetto base sulla componente energetica, sia già alle spalle. Non sarà dunque un problema di quest’anno, salvo che il prezzo delle materie prime non si ritenga destinato a un trend in rialzo o che la Trumpnomics, potenzialmente inflazionistica, non produca i suoi effetti nell’immediato. Ipotesi che tuttavia riteniamo improbabili.
Se la exit strategy della Fed passa dal balance sheet. Sul fronte delle politiche economiche, le banche centrali hanno fornito con la loro comunicazione segnali confusi. A ottobre la Fed voleva preservare la ripresa anche a rischio di un surriscaldamento dell’economia, mentre la troviamo da dicembre in poi con un atteggiamento più aggressivo di chi si sente in ritardo “dietro la curva”. Di conseguenza, il mercato non sa più come agire: a dicembre si era allineato sul sentiero del rialzo dei tassi segnalato dalla Fed mentre ora è tornato più scettico non solo per motivi macro, ma anche perché è entrato in gioco il tema del balance sheet.
Un punto è però chiaro: i tassi dovrebbero normalizzarsi salendo perché, qualunque regola si guardi, la crescita nominale oggi supera di molto i tassi Fed con cui storicamente tende a coincidere.
Il motivo per cui ad oggi permane un divario tra queste grandezze è che nonostante l’economia si fosse già ripresa, i tassi e le misure straordinarie hanno mantenuto la monetary stance in un territorio accomodante, dal quale tuttavia si dovrebbe uscire una volta cessato l’allarme. Se davvero l’economia ha intrapreso un sentiero di ripresa consolidato, a breve sarà facile sostenere che la Fed sia in ritardo.
Vi sono poi elementi strutturali, oltre che congiunturali, da considerare. La paralisi dei moltiplicatori monetari in America potrebbe essere dovuta alla regolamentazione finanziaria (Dodd-Frank), ed è noto che Trump abbia in agenda l’eliminazione di queste regole. Uno scontro su questo tema, considerando che ci sono cinque nomine da fare tra cui presidente e vice nella Fed, potrebbe risolversi con l’inserimento di figure amiche all’amministrazione che frenino la normalizzazione dei tassi. Questo elemento, se combinato alla rimozione dell’ostacolo normativo che ha inibito la propagazione degli stimoli monetari, potrebbe indurre la Fed ad accelerare la diminuzione degli stimoli monetari, anticipando la riduzione dello stock di titoli detenuto già entro la fine di quest’anno. Lo scontro istituzionale è già iniziato: se la Fed cederà sui tassi potrebbe aprirsi una battaglia di retrovia sul bilancio, che diventerà lo strumento con cui la Fed potrebbe restringere le condizioni monetarie.
Questa inversione della ‘sequenza’ di strumenti impiegati ha un impatto sui rendimenti obbligazionari medio lunghi e può prefigurare un rialzo più lento dei tassi di interesse di policy, se pensiamo che le misure di politica ortodossa e non ortodossa siano tra loro sostituibili.
L’Europa ha ancora bisogno del QE ma tassi troppo bassi soffocano la ripresa Per l’Europa la ricetta auspicabile è opposta: ha infatti ancora bisogno di QE per prevenire la frammentazione finanziaria (si potrebbe quindi auspicare un’uscita differenziata, prima dai ‘core’ poi dai ‘periferici’ almeno sotto il profilo squisitamente tecnico), mentre i tassi a -0,40% sulle riserve libere delle Banche iniziano probabilmente ad essere troppo bassi rispetto alla congiuntura.
Il problema è che quando starnutisce qualcuno in Europa, ne risente l’ammalato grave (finanziariamente) che è l’Italia. Cosa devono fare l’Italia e l’Europa per far sì che l’EMU non si frantumi e l’Italia prosperi nell’area euro? Ci sono una serie di ricette che includono riforme strutturali per noi e un sentiero di inflazione tedesco superiore a quello italiano (con 2% di differenza in 15 anni recuperiamo la perdita di competitività dall’avvento dell’euro). In alternativa, sarebbe necessaria la deflazione salariale che tuttavia porterebbe ad un rifiuto elettorale dell’Europa e ad una situazione di stallo politico.
Di contorno ci devono essere interventi di finanza pubblica molto più pervasivi di quelli proposti nel Def: si deve ridurre del 3% l’anno il debito/Pil per arrivare al 60% in 20 anni come prescritto dal Fiscal Compact. Di conseguenza il surplus primario non si può fermare all’1,5% dove siamo adesso ma deve arrivare verso il 3%, ipotizzando che crescita e tassi di interesse nominali si equivalgano. Riforme, ristrutturazione dei conti pubblici, magari con una flessibilità mirata agli investimenti (Golden rule) richiedono però una certa stabilità politica. Deve infine venirci in aiuto la politica di integrazione per procrastinare il regime di tutela in cui si opera sugli asset italiani (ad esempio i Safe Bonds, versione rivisitata degli Eurobonds). ‘Conditio sine qua non’ per questi passaggi è una minima stabilità politica o garanzia di affidabilità dell’Italia nei suoi impegni verso se stessa e l’Europa…

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!

Tag: