Reddito e robot: l’economia del troppo divertimento

A cura di Eric Lonergan, gestore del team Multi-Asset di M&G Investments
I sovvertimenti dell’ideologia politica visti ultimamente in tutto il mondo si sono verificati sullo sfondo di tensioni sempre più aspre sui livelli di retribuzione e di timori legati all’insicurezza lavorativa nella scia della globalizzazione e, più di recente, dei progressi tecnologici. Questi aspetti sono alla base di gran parte del dibattito politico in corso nel Regno Unito, dove l’entità preoccupante della disuguaglianza è balzata alla ribalta sullo stesso piano delle trattative sulla Brexit.
Tuttavia, in molti casi il discorso si concentra semplicemente sui numeri e le relative variazioni (si veda il grafico 1, per l’esperienza britannica degli ultimi dieci anni), sollevando molte meno domande riguardo alla natura dell’occupazione e alle modalità di determinazione dei salari. Il modo in cui riflettiamo su questi argomenti può avere implicazioni rilevanti per il tipo di approccio adottato da economisti e investitori riguardo alle politiche e nell’interpretazione dei dati macro.

Lavoro, piacere e occupazione
Qual è la differenza fra lavoro e piacere? Distinguere le attività retribuite da quelle che non lo sono non restituisce un quadro completo: meglio fare una distinzione fra le attività che vogliamo svolgere e quelle che non ci piacciono. Ma anche questa è inadeguata. La cura dei figli può essere qualcosa che vogliamo fare, un duro lavoro e anche un’occupazione retribuita. A quanto pare, ci si può persino divertire troppo.
Molte attività rientrano nella stessa categoria della cura dei figli. Talvolta è difficile classificare qualcosa come lavoro o piacere, poiché spesso dipende da chi ne trae beneficio – ad esempio, i figli propri o di qualcun altro – e dal numero di ore di lavoro richieste. La riduzione dell’utilità marginale trasforma molte attività da piacere in dovere.
Ne consegue che il lavoro non coincide con l’occupazione, che è chiaramente definita come un’attività retribuita, solitamente connessa a degli obblighi contrattuali. Essere formalmente occupati – ossia avere un lavoro – di solito implica una serie di attività. Il piacere può essere ancora più difficile da definire: se con questo termine ci riferiamo semplicemente a quello che facciamo volontariamente, senza essere pagati, allora include anche moltissime attività che descriveremmo come lavoro e, potendo scegliere, eviteremmo di fare.
Le retribuzioni non sono prezzi come gli altri
Queste semplici osservazioni hanno implicazioni molto rilevanti. Parliamo dell’economia del mercato del lavoro e del dibattito sui robot. La microeconomia basilare dei mercati del lavoro è relativamente precisa, ma riflette queste limitazioni analitiche. Parte dal presupposto che esistano due serie distinte di attività: quelle che “vogliamo” fare e quelle che preferiremmo evitare. Presume anche che siano separabili. Le retribuzioni sono un incentivo a fare le cose che di scelta non faremmo.
Questo modo di inquadrare il problema pone enormi problemi, alcuni dei quali sono stati ampiamente descritti. Gran parte degli studi condotti in quest’area ha cercato di spiegare il motivo per cui le retribuzioni sono diverse da altri “prezzi” e, in particolare, la resistenza ai cali nominali. Un esempio classico è la letteratura sul salario di equilibrio in cui si riconosce il potere motivante dei livelli di retribuzione.[1]
L’obiezione ovvia al micro-modello standard è che molte persone vogliono lavorare. La motivazione umana non è semplice come dire “voglio fare questa cosa perché mi fa guadagnare denaro”. Il lavoro conferisce uno status, può dare stabilità, permette alle persone di pianificare – oppure no. In molti lavori, ci sono aspetti soddisfacenti ma anche compiti sgradevoli. La felicità individuale sul lavoro può variare per moltissime ragioni del tutto indipendenti dalla retribuzione e spesso dipende dai colleghi. Le retribuzioni possono essere prezzi per chi le eroga, ma in un senso più profondo, non lo sono per chi le riceve.
La microeconomia di solito presuppone anche un’opzione continua di sostituire le ore lavorate con ore di piacere. Ma un’occupazione non è così: è incorporata, sotto l’aspetto organizzativo e amministrativo, nelle nostre vite. Tutti fanno piani in base al proprio reddito, acquisiscono obblighi. Le imprese definiscono i contratti, o li rendono flessibili, e spesso in realtà non assumono personale su base oraria.
Per questi motivi, ho sostenuto in passato che le curve di offerta di manodopera possono avere forme insolite e, in alcune circostanze, i salari nominali in declino possono far aumentare tale offerta. Keynes aveva assolutamente ragione: la mancanza di flessibilità dei salari nominali in genere non è la causa della disoccupazione ciclica.
Anche le attività non retribuite che a nessuno piace fare vengono svolte comunque. L’economia standard non è in grado di spiegarlo. Certo, se si definisce il “volere” in base alla teoria delle preferenze rivelate, “vogliamo” fare tutto ciò che facciamo. Ma o è una tautologia, o è un errore. Siamo costretti a fare molte cose che non vorremmo fare: la vita comporta una serie di compiti ed è impossibile dividere il “lavoro” dal “piacere”.
Il ruolo dei robot
Ma che c’entra tutto questo con il dibattito sui robot? Nello specifico, il termine “robot” riassume tutto il costante progresso tecnologico. Il punto essenziale resta che nelle economie avanzate si impiega più tecnologia adesso che in qualsiasi altro momento della storia dell’umanità e, contemporaneamente, il numero di ore lavorate (per occupazioni retribuite) non è mai stato così alto. Più che una correlazione fra grado di avanzamento tecnologico e disoccupazione, sembra esserci una situazione opposta: le economie sviluppate con alti tassi di diffusione della tecnologia presentano una disoccupazione molto bassa. È una relazione difficilmente misurabile, ma osservate il grafico di seguito, tratto da un lavoro di Georg Duernecker del 2011:

Lo studio va preso per certi versi con le pinze. Utilizza dati pre-crisi e molti assunti statistici, mentre sono in gioco tutti i problemi di correlazione/causalità e dei confronti fra Paesi. A un livello più semplice, però, consideriamo questa classifica dei Paesi per tasso di disoccupazione. Fra quelli sviluppati, Singapore ha il tasso di disoccupazione più basso, la Spagna quello più alto. Nella migliore delle ipotesi, la maggiore diffusione della tecnologia riduce la disoccupazione; nella peggiore è irrilevante e sono altri (gestione della domanda ciclica e struttura del mercato del lavoro) i fattori determinanti.
Sembra quindi necessario ridefinire il contesto del dibattito sui robot. Pensiamo a tutte le cose che dobbiamo fare, nell’ambito di un lavoro retribuito o nella vita, senza alcuna retribuzione, anche se non ci piace farle. Organizziamoci per affidare tutti questi compiti ai robot.
Ma se poi i robot cominciano a fare le cose che ci piacciono? Finora è dimostrato che li apprezziamo come partner di gioco. Stanno anche ampliando il raggio d’azione della nostra vita sociale, sebbene con effetti contrastanti. Forse la vera minaccia è l’intelligenza artificiale (AI), se i computer dimostrano che le nostre preziose convinzioni sono assurdità, oppure cominciano a pensare per noi. Ma del resto, parafrasando Thomas Edison, le persone sono disposte a tutto pur di evitare di pensare.
[1]Il lavoro empirico classico sulla complessità della definizione dei salari è “Why wages don’t fall in recessions” di Truman Bewley.

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