Questi non sono mercati normali

A cura di David Kupperman, Co-Head – Neuberger Berman Alternative Investment Management
Quattro anni fa i mercati non avevano accolto bene i primi accenni della Federal Reserve alla possibile riduzione del programma di allentamento monetario (QE). Nelle ultime due settimane abbiamo assistito a una reazione simile, anche se su scala ridotta, sui mercati dei titoli di Stato, poiché la Fed si prepara a ridurre il proprio bilancio, mentre altre banche centrali hanno iniziato ad assumere un orientamento più restrittivo. Il QE potrebbe davvero arrivare finalmente al capolinea.
A pensarci bene, è qualcosa di straordinario. Il QE dura ormai da quattro anni ed è ancora in crescita. A maggio 2017 gli acquisti di attività da parte delle banche centrali superavano già 1.500 miliardi di dollari ed entro fine anno dovrebbero oltrepassare 3.000 miliardi di dollari. La Bank of Japan detiene circa due terzi del totale delle attività degli ETF giapponesi, secondo i dati pubblicati da Bloomberg a inizio anno. Alla fine del primo trimestre le azioni statunitensi acquistate dalla Banca nazionale svizzera (BNS) ammontavano a 80 miliardi di dollari. La stampa non dedica neanche due righe a queste anomalie, impossibili da immaginare quando la Fed diede inizio al programma di QE nel 2008.
Se ora la banca centrale si prepara a fare marcia indietro, c’è da stupirsi che il mercato obbligazionario non abbia avuto una reazione ancora più negativa.
Il surrealismo del QE e i massicci investimenti in strumenti passivi. La serenità dei mercati azionari rappresenta un mistero ancora più grande, perché nel loro caso le distorsioni del QE vengono amplificate da una seconda, enorme ondata di flussi di capitali.
Si tratta degli investimenti effettuati dagli strumenti non discrezionali, ovvero le strategie passive, quantitative, algoritmiche, trend following e “smart beta.” Secondo le stime J.P. Morgan, questi flussi di capitali rappresentano nel complesso il 60% circa delle transazioni azionarie. Morgan Stanley ritiene che gli ETF statunitensi abbiano registrato investimenti per quasi 90 miliardi di dollari nei soli mesi di gennaio e febbraio, un valore cinque volte superiore ai volumi stimati in base alla tendenza degli ultimi sette anni.
Se il picco del surrealismo del QE è vedere la BNS che acquista azioni Apple, probabilmente per gli ETF il picco è già stato toccato negli ultimi mesi, quando uno strumento Junior Gold Miners ha attratto afflussi così elevati da avvicinarsi alla soglia del 20% del capitale di alcune società, che ai sensi delle leggi statunitensi innesca automaticamente l’obbligo di lanciare un’offerta d’acquisto.
Onda d’urto. La somma di questi fattori spiega a mio avviso la particolare situazione di mercato attuale: volatilità estremamente ridotta, bassa correlazione tra singoli titoli ed elevate valutazioni, il tutto in un contesto di fragilità geopolitica, mercato delle materie prime che scricchiola e curve dei rendimenti piatte. I miei colleghi Erik Knutzen e Joe Amato ci hanno spiegato che anche i fondamentali possono dirci molto. La loro tesi non fa una grinza; credo però che valga la pena prendere in considerazione anche la possibile alternativa, perché—se questa si dimostrasse anche solo in parte corretta—la coda sinistra dei potenziali rendimenti sarebbe molto più alta di quanto credano i mercati.
La volatilità che ha colpito il settore tecnologico da metà giugno potrebbe rappresentare l’onda d’urto delle tensioni accumulate. Quando i gestori attivi decidono che un settore è sopravvalutato, tendono a effettuare transazioni basate sulle valutazioni relative, aumentando la dispersione dei rendimenti all’interno dello stesso settore. Per contro, quando sono gli algoritmi degli strumenti passivi, delle strategie trend following e dei prodotti quantitativi a giudicare sopravvalutato un settore, tendono ad abbandonarlo in massa.
Le rotazioni a cui assistiamo oggi ci sembrano di questo secondo tipo. L’unico motivo per cui oggi il rischio di rendimenti negativi non è così elevato è che l’abbondante liquidità iniettata dalle banche centrali fa girare tutti gli ingranaggi; ed è per questo che, nel momento in cui questa liquidità venisse meno, si potrebbero avere enormi ripercussioni.
«Fake Markets» In un recente commento, Francesco Filia di Fasanara Capital ha descritto queste dinamiche come «Fake Markets», un’espressione che ben sintetizza lo spirito di questi tempi. Sono d’accordo con questa definizione. Quando tornerà a imporsi la realtà, i mercati potrebbero trovarsi in difficoltà. Per limitare i danni, gli investitori possono attuare strategie in grado di sopravvivere alla fase di transizione e beneficiare dell’inversione di tendenza.
Crediamo che gli hedge fund—in particolare gli stili che storicamente mostrano una bassa correlazione con il rischio azionario e obbligazionario, come equity market-neutral, volatility arbitrage e fixed-income arbitrage—abbiano il potenziale di generare rendimenti in attesa del momento di rottura.
Negli ultimi anni questi strumenti hanno registrato andamenti sotto tono, ma creano opportunità insolitamente ghiotte in un contesto di valutazioni eccessive, volatilità contenuta con alto rischio di rendimenti negativi sui mercati long-only, bassa correlazione tra singole azioni e prezzi tecnicamente distorti. Inoltre, i vincoli normativi che gravano sugli operatori concorrenti continuano a favorire le strategie come quelle basate sui prodotti di credito strutturati.
È indicativo che la stampa, da tempo critica nei confronti degli hedge fund, abbia smesso di parlarne nel corso di quest’anno. Forse il motivo è che l’indice HFRX Global Hedge Funds è salito del 6,25% nei 12 mesi a fine giugno.
Non si tratta certo di una notizia da pubblicare a caratteri cubitali, ma potrebbe comunque attirare l’attenzione degli investitori, dato che la performance degli hedge fund può fungere da sismografo. Questi non sono mercati normali e le tensioni non fanno che crescere.

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