Mercati in attesa di Jackson Hole

Laurence Boone, Head of Research & Investment Strategy, Axa IM

Il cambiamento più spettacolare dall’ultima edizione della nostra Strategia di Investimento è stato il rafforzamento dell’euro sul dollaro. L’apprezzamento della valuta americana rispecchia l’evoluzione delle aspettative del mercato riguardo alle modifiche della politica monetaria, da un lato, della Federal Reserve (Fed) e, dall’altro, della Banca centrale europea (BCE).

I mercati sembrano determinati a ignorare le dichiarazioni della Fed e hanno ridimensionato le aspettative di futuri aumenti dei tassi. Allo stesso tempo, stanno ignorando anche la retorica distensiva della BCE, e hanno rivisto al rialzo le previsioni di tapering. Ne è conseguito un rafforzamento dell’euro e un deprezzamento del dollaro.

La questione chiave per gli investitori è se i mercati continueranno a spingere al rialzo l’euro, sconvolgendo il calendario della BCE, che sarebbe spinta a procrastinare ulteriormente ogni discorso di normalizzazione. A nostro avviso, come spesso accade, i tassi di cambio reagiscono in modo eccessivo al variare delle aspettative. In questo caso, i mercati hanno, da un lato in primo luogo sottostimato la resilienza della crescita USA e le sottostanti pressioni inflazionistiche e, secondariamente, hanno sopravvalutato la volontà di normalizzazione monetaria della BCE, che probabilmente si concretizzerà con tempistiche più lunghe di quanto attualmente scontato.

Infine, le oscillazioni effettive del tasso di cambio nominale euro/dollaro sono solo la metà di quelle dei tassi bilaterali. Se questi dovessero stabilizzarsi nel corso dell’estate (come prevediamo) è improbabile che le due banche centrali si discostino dalla forward guidance degli ultimi mesi.
Crescita e inflazione: nessun motivo di scontare gli USA
Le aspettative degli economisti si attestano ancora per lo più sulla previsione di una crescita del PIL USA sopra al 2% sia per quest’anno che per il prossimo – nonostante aspettative sempre più contenute rispetto all’entità dello stimolo fiscale. Si prevede infatti che lo stimolo sarà di modesta entità, nell’ordine di mille miliardi di dollari per i prossimi dieci anni, al termine dei quali sarà quasi neutrale. Ciò potrebbe assumere la forma di un modesto taglio dell’imposta sui redditi societari, anche permanente, e di una possibile riduzione, di natura temporanea, dell’imposta sulle persone fisiche. Nonostante l’effetto sulla fiducia, sembra improbabile che ciò possa avere un impatto rilevante sulla crescita, in un modo o nell’altro. Per di più, la persistenza della crescita dovrebbe continuare a esercitare crescenti pressioni sul mercato del lavoro, e si ipotizza un costante e progressivo aumento dei salari e dei redditi da lavoro, che potrebbe avvicinarsi a un tasso di crescita annuo del 3%.

Sulla sponda opposta dell’Atlantico, la crescita europea continua a prendere slancio: in quasi tutti i Paesi la crescita del PIL nel secondo trimestre è stata persino più vigorosa che nel primo, e anche le indagini sulle imprese evidenziano continui miglioramenti. L’euro si è rivalutato di circa il 12% sul dollaro dal minimo toccato a dicembre 2016, e di circa il 5% in termini effettivi (dato ponderato per gli scambi commerciali con i paesi partner). Tradizionalmente, occorre circa un anno perché gli effetti di un apprezzamento permanente del tasso di cambio si facciano sentire nell’economia reale. In base ai trend storici, un rafforzamento di questa entità potrebbe portare a una riduzione dell’inflazione e della crescita del PIL di un quarto di punto percentuale dopo un anno.

Ma il dato deve essere valutato sullo sfondo di un contesto globale di espansione, con una crescita globale intorno al 3,5%, il livello più alto dopo la crisi del debito dell’eurozona, e in cui gli investimenti e i consumi interni si caratterizzano sempre più come i motori della crescita. A condizione che il cambio si stabilizzi, in questa fase il rafforzamento dell’euro non dovrebbe intaccare più di tanto le prospettive di crescita. Per contro, se questa fase di accelerazione dovesse continuare, inizierebbe ad avere ripercussioni sulla ripresa europea e diventerebbe così una fonte di preoccupazione per la BCE.

Apparentemente l’inflazione non è riuscita a rispondere con più dinamismo allo slancio economico, eppure il puzzle dell’inflazione non è un fenomeno nuovo e potrebbe costituire una reazione “normale” al ritardo e a una certa pigrizia della ripresa in alcune regioni. Negli anni novanta, tra gli economisti e le banche centrali vi fu una riflessione sul basso tasso d’inflazione in un contesto congiunturale di vivace ripresa. Nel 1997, la Fed di New York pubblicò un articolo sulla questione, spiegando il comportamento dell’inflazione con l’inusuale lentezza della ripresa delle retribuzioni. Se consideriamo l’andamento dei salari dall’esordio dell’attuale ripresa, sembra plausibile che anche nella fase attuale possa essere in gioco un effetto di questo tipo.

Ciò va ad aggiungersi all’impatto della rivoluzione digitale sul mercato del lavoro e, in Europa, a un certo ritardo della ripresa. A frenare l’inflazione hanno in parte contribuito anche i bassi prezzi delle materie prime e lo scarso aumento di produttività. In ogni caso, è troppo presto per affermare che l’inflazione e la sua tradizionale relazione con l’attività economica, come spiega la curva di Phillips, stiano attraversando un cambiamento di stato (“regime shift”).

Banche centrali ferme sulle proprie posizioni
In tale contesto, ci sembra che i mercati dei tassi si stiano adeguando in modo eccessivo all’incertezza delle politiche monetarie, mentre non tengono sufficientemente conto della solidità economica e della univocità che caratterizza le dichiarazioni di Fed e BCE. Se, dopo la vittoria elettorale di Donald Trump, i tassi americani sono stati aumentati a fronte delle aspettative di importanti interventi di stimolo, successivamente hanno reagito in misura eccessiva in direzione opposta, non appena sono emerse le prime difficoltà della nuova amministrazione a varare le riforme promesse.

Se consideriamo i dati quantitativi, la solidità sottostante dell’economia USA persiste, come sottolinea il recente Beige Book della Fed. In prospettiva, l’entità delle riforme fiscali e della deregolamentazione del settore finanziario da parte dell’amministrazione USA sarà con ogni probabilità modesta. Il rischio principale potrebbe giungere dall’interruzione degli scambi commerciali durante la rinegoziazione del Trattato nordamericano di libero scambio (NAFTA), appena avviata. Nel complesso, uno scenario centrale di persistente ripresa è in linea con i recenti commenti della Fed, che prevedibilmente procederà a una progressiva riduzione del suo stato patrimoniale e a un rialzo dei tassi verso fine anno, seguito da altri tre nel 2018, per procedere alla normalizzazione degli strumenti di politica monetaria a ritmo prudente. Ciò sarebbe in linea con le previsioni di inflazione e crescita potenziale USA a medio termine, che in termini nominali porterebbero la crescita del PIL e i tassi a lungo termine verso il 3%-3,5% senza grandi sforzi. Per contro, al momento il mercato sta scontando una probabilità inferiore al 50% di un aumento dei tassi da parte della Fed a dicembre, e solo del 55% prima di marzo 2018.

Nel frattempo, la BCE – che procede in modo costante – continua a sottolineare i progressi dell’economia, ma cita l’inflazione moderata a giustificazione del ritardo di qualunque discorso di tapering. Eppure, come dimostrano gli USA e la Fed, non c’è motivo di allarmarsi per la bassa inflazione se la crescita decolla, anche se le oscillazioni dei tassi di cambio suggeriscono un approccio cauto. I mercati non considerano la forward guidance della BCE e scontano una velocità di normalizzazione molto superiore a quanto ripetutamente indicato dalla banca centrale.

Dobbiamo aspettarci che la BCE modifichi la sua forward guidance? A nostro avviso no, in quanto l’area euro è solo al suo terzo anno di ripresa, l’inflazione è ancora molto lontana dal target e permangono diversi ambiti di fragilità. Fintanto che la direzione della BCE resterà nelle mani dell’attuale Comitato Esecutivo – quindi fino al 2019 inoltrato – non c’è motivo di dubitare della sua forward guidance. Non prevediamo pertanto alcuna riduzione degli acquisti di asset prima del 2018. La BCE continuerà a ripetere il suo mantra accomodante almeno fino all’appuntamento di Jackson Hole di fine agosto. A settembre potrebbe fare qualche timido accenno alle modalità della normalizzazione, aspettando ottobre prima di fornire altri dettagli, a seconda dell’andamento dei tassi di cambio e dei dati economici nei mesi estivi.

Implicazioni per i tassi d’interesse
In modo molto concreto, questa valutazione economica e finanziaria ci induce a prospettare le seguenti tempistiche di modesta inversione delle attuali tendenze dei tassi. Dopo un’estate (speriamo) tranquilla, i mercati potrebbero reagire agli eventi di Jackson Hole, dove è probabile che i rappresentanti delle banche centrali europea e americana diano qualche indicazione. Non ci aspettiamo nulla di molto diverso dai precedenti discorsi, con riferimenti al contesto quale premessa per una più decisa normalizzazione delle politiche monetarie. A nostro avviso, la Fed non si distanzierà molto dalle sue precedenti previsioni, in base alle quali i tassi USA dovrebbero iniziare ad aumentare gradatamente solo nella seconda parte dell’autunno, in preparazione di un rialzo a dicembre.

Per contro, al meeting di Jackson Hole ci aspetteremmo indicazioni un po’ più precise sul tapering (quanto meno riguardo alla metodologia) da parte del Presidente della BCE Mario Draghi, che dovrebbe tenere conto dell’andamento del tasso di cambio durante l’estate, nell’ottica di assicurare per quanto possibile la stabilità dei tassi e dell’euro. Complessivamente, questo ci induce ad aspettarci una modesta inversione della recente variazione del tasso di cambio euro/dollaro, seppure solo ad autunno inoltrato, con un target a fine anno di $1,12/€1.

Investimenti: manteniamo l’attuale orientamento al rischio
In questo contesto, la principale differenza rispetto a quanto dichiarato il mese scorso si riscontra nell’accelerazione del rafforzamento nominale euro/dollaro. Peraltro, il nostro outlook resta pressoché invariato, in quanto riteniamo che il rafforzamento dell’euro sarà parzialmente riassorbito prima di fine anno. Manteniamo una posizione di sovrappeso in asset sensibili alla crescita, dalle azioni al credito high yield e al debito dei mercati emergenti, specialmente in Europa e negli EM.

In ambito azionario, il mercato USA evidenzia ancora valutazioni elevate, mentre la relativa sovraperformance dei titoli azionari dell’area euro rispetto all’indice S&P 500 si è ridimensionata dopo il deciso rally di inizio anno. Il rapporto prezzo/utili negli USA si attesta al 37% sopra la media storica, e anche gli altri parametri di valutazione superano in quasi tutti i casi le medie a lungo termine. Le pressioni al ribasso sui prezzi energetici potrebbero rendere le azioni USA particolarmente vulnerabili, in quanto il settore energetico contribuisce per quasi un terzo alla crescita degli utili del Paese registrata nel 2017. Le azioni internazionali pertanto sono al momento molto scontate rispetto a quelle statunitensi. Di conseguenza, restiamo sottopesati in azioni USA, mentre manteniamo la nostra posizione di sovrappeso nell’area euro, in Svezia e nei mercati emergenti.

A livello strutturale, nel medio termine manteniamo una posizione lunga sulle obbligazioni inflation-linked, sia negli USA che nell’area euro, rispetto ai Treasury e ai titoli sovrani core dell’area euro. Le aspettative d’inflazione dovrebbero infatti continuare a crescere lentamente in un contesto di (modesta) accelerazione dei salari. Peraltro, manteniamo una posizione neutrale sulle obbligazioni sovrane core, con un rischio di volatilità qualora i mercati iniziassero il re-pricing degli interventi sui tassi della Fed.

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