Occhi puntati sugli Usa in vista della fine del quantitative easing

Di Andrew Wilson, CEO di Goldman Sachs AM per l’area EMEA

L’innovazione in politica monetaria ha caratterizzato i mercati sin dai giorni più duri della crisi, quindi è naturale che gli investitori prestino molta attenzione ai discorsi ufficiali dei banchieri centrali. Nel Regno Unito le cose stanno procedendo come era prevedibile: mentre le pressioni inflazionistiche causate dalla debolezza della sterlina sono diventate evidenti, il pericolo di un aumento dei tassi resta elevato. La maggioranza del Monetary Policy Committe sta osservando l’aumento temporaneo di inflazione e sta aspettando di valutare l’impatto economico di Brexit.

Per avere un’idea di quanto accadrà in futuro, dovremmo guardare agli Stati Uniti. Ci aspettiamo che la Fed annunci a settembre un piano per invertire il proprio quantitative easing (QE), con la vendita negli ultimi tre mesi dell’anno di 10 miliardi di dollari in titoli di stato e titoli garantiti da ipoteca.

Tuttavia la maggior parte dei segnali fa pensare a uno scenario ancora restrittivo. Nonostante negli ultimi nove mesi si siano succeduti tre aumenti dei tassi, le condizioni finanziarie continuano ad allentarsi. Il mercato azionario registra rendimenti notevoli, i rendimenti obbligazionari stanno diminuendo e il calo del dollaro sta subendo un’accelerazione.

Il mercato del lavoro si conferma forte, con la disoccupazione ai livelli del 2001 e i redditi orari medi che mantengono la tendenza al rialzo. Riteniamo che i falchi nella politica monetaria statunitense abbiano ancora più voce in capitolo e che la prima significativa uscita dal QE avverrà negli Stati Uniti.

Ci sono timori che questo possa causare nuova volatilità. Quando nel 2013 Ben Bernanke evocò la prospettiva di acquisti ridotti in fase di QE, ne era scaturito un forte sell-off nei mercati: il “taper tantrum”. Ma i banchieri centrali hanno imparato la lezione e ora ogni mossa attuale o potenziale verso quella direzione viene annunciata in maniera chiara. Vale anche la pena notare che l’inversione del QE non comporterà svendite destabilizzanti da parte della Fed su un mercato già in allarme per la prospettiva della fine del sostegno della banca centrale. La Fed investe nell’intero spettro delle scadenze e può semplicemente diminuire il ritmo di reinvestimento di titoli maturi. La gradualità e la cautela saranno le parole d’ordine.

Sebbene gli USA siano in una fase più avanzata del percorso di inversione della propria politica monetaria, alcuni indicatori dell’area euro segnano anch’essi un forte miglioramento. I recenti numeri della crescita in Europa sono più alti del previsto, con un’inflazione leggermente più alta; questi elementi si aggiungeranno alle forti attese che Mario Draghi annunci il piano di uscita dal QE verso fine anno.

Draghi si trova in una situazione non semplice. La ripresa dell’Eurozona resta fragile: recentemente l’Italia ha raggiunto un accordo per il salvataggio di due banche per 17 miliardi di euro, un quarto salvataggio della Grecia è in fase di discussione e la BCE è ancora vincolata dal divieto di fiscal transfer all’interno dell’UE.

Il modo in cui Draghi effettuerà la “normalizzazione” della politica monetaria determinerà gran parte del futuro economico di tutto il blocco.

A giugno il Presidente della BCE ha quasi innescato il proprio taper tantrum da Sintra. Ma mentre Draghi ha immediatamente contenuto la conseguente volatilità con parole più rassicuranti per un mercato non disposto a fronteggiare il venir meno del sostegno della BCE, sa bene che questa situazione non può protrarsi all’infinito.

A parte il punto interrogativo circa la sostenibilità di una ripresa supportata da un intervento dello stato nel lungo periodo, Draghi ha urgenti ragioni pratiche per avviare il processo di inversione. Su tutte, il fatto che le obbligazioni da acquistare si stiano esaurendo: deve sospendere gli acquisti oppure avere argomenti politici per allontanarsi dal “capital key” che determina quante obbligazioni di un paese può acquistare, oppure ancora abbandonare la convenzione secondo cui la BCE non potrà detenere più di un terzo di ogni singolo titolo.

La seconda e la terza opzione hanno implicazioni importanti: l’abrogazione del capital key darebbe spazio all’accusa di effettuare indirettamente il fiscal transfer; inoltre, se la BCE dovesse possedere la maggioranza dei bond individuali, peggiorerebbe il problema della scarsità di cui già gli investitori privati si stanno lamentando e si troverebbe con la responsabilità di essere un investitore di maggioranza a richiedere un fallimento nel caso di un default, una posizione scomoda per una banca centrale.

Il rischio principale per Draghi è che porta i mercati ad accettare condizioni più restrittive e questo non gli lascia nessuna giustificazione di principio per l’imminente inversione del QE.

Nelle prossime settimane ci aspettiamo un discorso diretto – seppur prudente – da Washington e un linguaggio più ambiguo da parte di Francoforte.

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