Il difficile equilibrio del mercato obbligazionario emergente

A cura di Simon Lue-Fong, Head of Emerging Debt di Pictet AM

I bond dei mercati emergenti (EM) dovrebbero essere una parte consistente di un portafoglio diversificato. Come emerge dalle previsioni del nostro outlook di lungo periodo, tali titoli sono, infatti, tra le poche fonti di rendimento potenzialmente interessanti in quello che altrimenti sarebbe un mercato obbligazionario poco redditizio.
A differenza degli onerosi bond delle economie avanzate, il debito emergente offre rendimenti elevati e fondamentali attraenti. Anche dopo l’ottima performance messa a segno di recente, i bond dei Paesi in via di sviluppo in valuta locale e in USD rendono rispettivamente il 6,0% e il 5,2%. Un buon risultato rispetto all’1,5% offerto attualmente dalle obbligazioni delle piazze avanzate, anche perché l’inflazione in queste economie sale, mentre scende nei mercati.
Secondo i nostri strategist, per i prossimi cinque anni il debito emergente offrirà un rendimento annuo dell’8,1% in valuta locale e del 3,3% in valuta forte (in USD), in quanto il mercato beneficerà dell’attenuazione delle pressioni inflazionistiche e di una solida crescita congiunturale. Per contro, i bond dei Paesi sviluppati genereranno un rendimento annuo complessivo pari solo all’1,7%.
Ma come la storia insegna, i bond emergenti tendono a subire brusche oscillazioni, registrando una volatilità che potrebbe compromettere seriamente i rendimenti degli investitori qualora non venisse gestita in modo adeguato.

Troppo in alto troppo in fretta

Da un anno e mezzo il debito emergente è in forte rialzo. Dall’inizio del 2016 il benchmark JP Morgan GBI-EM Global Diversified Composite Index è avanzato del 28%, sicuramente anche grazie ai flussi di capitali. Solo nel primo semestre 2017 sono stati investiti USD13,5 miliardi negli ETF del debito dei mercati emergenti, un volume che ha superato il record di USD11 miliardi dell’anno precedente.

Sul mercato si osserva ora un certo surriscaldamento. A giugno l’Argentina ha emesso un bond a 100 anni che ha ricevuto quasi dieci miliardi di dollari di offerte di acquisto per 2,75 miliardi di titoli collocati. Che questo si sia verificato solo dopo tre anni che l’Argentina, un Paese con un passato di default, si sia sottratta ai propri obblighi indica un clima di strana euforia tra gli investitori.
Certo, c’erano delle buone ragioni per acquistare l’obbligazione. Rispetto agli strumenti alternativi, una cedola dell’8% risulta interessante. In termini di duration, il bond appariva conveniente anche rispetto ad altri titoli argentini. E nonostante il nuovo governo sembri il più prudente in tanti anni, è improbabile che gli investitori abbiano acquistato il bond con l’idea di mantenerlo fino alla scadenza.
Ma il repentino cambiamento di atteggiamento del mercato indica anche che gli investitori sono disposti a ignorare i rischi di lungo periodo per assicurarsi un extrarendimento; le nuove emissioni di successo di Costa d’Avorio, Sudafrica, Turchia e Brasile sono solo alcuni degli esempi di questo trend.

Attenzione alla volatilità
Di questi tempi è facile per gli investitori non tener conto dell’importanza di proteggersi adeguatamente contro i possibili ribassi del mercato. Farsi prendere dall’euforia può rivelarsi rischioso, soprattutto quando si tratta di strumenti periodicamente soggetti a volatilità come i bond emergenti.
L’esperienza infatti ci insegna che ogni tanto questa asset class è soggetta a brusche flessioni. Per esempio, tra l’inizio del 1994 e la fine del 2015, l’indice JPM EMBI Global Diversified Composite ha registrato un calo del rendimento complessivo di oltre il 2% per 57 settimane, e di oltre il 5% per 12 settimane.
Queste flessioni marcate possono rivelarsi molto dannose per i rendimenti a lungo termine, in quanto maggiore è la perdita, più è difficile recuperarla (per riassorbire interamente un calo del 25% occorre un rally del 33%). Inoltre, gli investitori tendono a entrare nel panico e vendere nel momento peggiore, spesso in corrispondenza di inversioni di tendenza, così come tendono a comprare quando il rally è ormai superato.

Aggressione passiva
Per quanto riguarda il debito emergente, ci sono varie ragioni per pensare che in futuro un approccio tradizionale e sensibile al rischio possa rivelarsi migliore. Questo perché l’ingente aumento degli investimenti passivi nel debito emergente potrebbe esacerbare la volatilità del mercato e rendere le perdite dai massimi ai minimi ancora più marcate. Dieci anni fa, quasi nessuno investiva negli ETF del debito emergente. A metà del 2017 gli investimenti rappresentavano quasi la metà dei 90 miliardi di dollari di flussi netti nell’asset class da gennaio 2007.6
Gli ETF sono adatti per asset class liquide e omogenee come le azioni USA; non è scontato, invece, che siano delle soluzioni di investimento idonee anche per mercati quali il debito emergente. A nostro parere l’asset class non si presta facilmente agli investimenti passivi. Per esempio perché quando i Paesi emettono nuove obbligazioni la loro ponderazione negli indici aumenta, costringendo i fondi indicizzati ad assumere posizioni più consistenti su asset potenzialmente molto rischiosi.
Poi c’è la questione della reale efficienza del mercato del debito emergente. A differenza dei mercati azionari, quelli obbligazionari presentano un alto numero di partecipanti il cui obiettivo non è massimizzare i profitti, non da ultimi governi e agenzie quasi governative. Questo offre delle opportunità agli investitori attivi che le strategie passive non possono cogliere.

Per non parlare dei costi di replica di indici pieni di obbligazioni scambiate solo sporadicamente o dei dubbi circa l’effettiva rappresentatività di tali indici per l’universo emergente. Inoltre, molti ETF passivi non colgono le numerose opportunità interessanti rappresentate dalle emissioni dei Paesi esclusi dagli indici, che, ad esempio, sono stati relativamente lenti nel promuovere i mercati di frontiera alla categoria superiore.
Occorre inoltre tenere a mente che i fondi indicizzati che investono nel debito emergente non si basano sull’indice standard JP Morgan GBI-EM GD, ma seguono una variante. Per l’indice standard non esiste un’esposizione geografica minima che invece per le varianti seguite dagli ETF si attesta tra l’1,5% e il 3%. Tale dato è significativo poiché quando un nuovo Paese entra nell’indice gli ETF che replicano il benchmark sono spesso costretti ad avere un’esposizione eccessivamente elevata a bond di solito meno liquidi. I fondi che seguono gli indici sono, quindi, meno liquidi di quelli basati sul benchmark standard. I fondi indicizzati inoltre non hanno modo di compensare i costi di transazione e le imposte applicati agli investitori esteri; pertanto, tenderanno ad accumulare un ritardo, anche consistente, rispetto agli indici di riferimento, soprattutto nelle fasi di ribasso sul mercato.

Soluzioni prudenti
Le strategie di Pictet Asset Management nel debito emergente mirano a superare i rispettivi benchmark nel lungo periodo anche assicurando la conservazione del capitale nelle fasi di volatilità. Ciò non significa che siamo difensivi per natura – corriamo rischi appropriati alla situazione di mercato – ma che siamo sensibili ai fattori macroeconomici e politici nonché a variazioni estreme del sentiment. Ecco perché nei mesi scorsi abbiamo optato per un approccio cauto. A nostro parere gli investitori potrebbero dover sacrificare una parte dei rendimenti nelle fasi rialziste, ma saranno ripagati dalla
possibilità di cavalcare il ciclo economico e mantenere i propri guadagni nelle situazioni di turbolenza sui mercati.
Minimizzare le perdite in caso di mercati ribassisti fa sì che gli investitori non debbano vendere nel momento peggiore, ovvero dopo una netta flessione. Ugualmente, i gestori prudenti sono meno inclini a investire in maniera aggressiva in mercati effervescenti e pertanto tendono a sottoperformare nei periodi di eccessivo ottimismo.

Il nostro processo prudente è stato sviluppato per adattarsi alle dinamiche di una asset class interessante ma volatile. Nel valutare i nostri investimenti teniamo conto di numerosi fattori. Uno è il rischio sovrano. Anche se la nostra attenzione si concentra in primo luogo sull’analisi bottom-up, ci avvaliamo dei modelli economici sviluppati dal nostro team per  valutare adeguatamente i rischi macroeconomici che interessano i mercati emergenti.
Si tratta di un processo importante poiché, a nostro parere, circa la metà dei rendimenti del debito emergente è legata a fattori macroeconomici. Una panoramica della situazione congiunturale completa la dettagliata analisi bottom-up a livello di Paesi e strumenti e il risultato è una visione a 360° di rischi e opportunità per l’asset class.
Trattiamo singolarmente le diverse componenti del rischio sui mercati emergenti. Ad esempio, nel caso delle obbligazioni in valuta locale la gestione di posizioni sui tassi di interesse e sui cambi è separata. Nelle fasi di stress sui mercati controlliamo attentamente le posizioni liquide tramite un processo in cinque fasi chiamato “the drill”.
Così, quando il mercato attraverserà una fase difficile, ci faremo trovare pronti. E poiché saremo pronti, per gli investitori sarà più semplice far fronte al ciclo. Coloro che saranno abbastanza coraggiosi da continuare a detenere obbligazioni emergenti durante le inevitabili rotazioni sui mercati coglieranno buoni frutti nel lungo periodo. Perché ciò si realizzi, tuttavia, non devono tirarsi indietro quando sui mercati si scatena il panico. E a nostro avviso il miglior modo per superare tale trappola psicologica è investire con gestori di portafoglio che lavorano duramente per preservare il capitale.
Da giugno 2007 la strategia di Pictet AM nel debito globale in valuta forte ha superato il benchmark in caso di consistenti drawdown, in particolare durante il crollo del 2008 in cui l’indice ha ceduto oltre il 20%7. Anche la ripresa è stata rapida. Tale andamento ha contribuito a sostenere la performance di lungo periodo. Negli ultimi dieci anni la performance annua media delle nostre strategie in valuta forte e locale è stata superiore a quella dei relativi benchmark

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