Quando le lancette segnano l’ora americana

a cura di Olivier De Berranger, Chief Investment Officer di La Financière de l’Echiquier

Gli Stati Uniti continuano a dettare il ritmo sui mercati mondiali e ogni notizia che provenga dall’altra sponda dell’Atlantico merita un’attenta disamina. L’attualità americana ha richiamato, la scorsa settimana, ogni singola attenzione. La prima cartuccia è stata sparata martedì dall’Alabama, dove il repubblicano Roy Moore – finito sotto inchiesta per molestie nei confronti di una minorenne – ha perso le elezioni suppletive al Senato. La sua sconfitta indebolisce ulteriormente la maggioranza già risicata di Trump al Senato dove, a fare la differenza, è un solo voto ormai. E’ una gran brutta notizia mentre si stanno negoziando gli ultimi dettagli della riforma fiscale tra le due camera del Congresso.

Questo contrattempo non ha però ostacolato i rappresentanti repubblicani che si sono accordati, mercoledì sera, su un testo congiunto. Se non se ne conoscono ancora i contenuti, sappiamo che l’aliquota fiscale a carico delle società sarebbe definita al 21% già dal 2018. Questo accordo di massima non equivale tuttavia a una votazione e i colpi di scena si sono susseguiti durante tutta la settimana. Veniamo così a sapere che giovedì, Marco Rubio, senatore della Florida, e Mike Lee, senatore dell’Utah, hanno posto come condizione per il loro voto un aumento dei crediti di imposta per le famiglie. Sono state poi trovate delle concessioni che hanno portato, venerdì sera, alla pubblicazione di una versione riconciliata del testo che sarà sottoposto alle due camere. E’ molto probabile che venga approvato senza altri intoppi.

Tuttavia, l’attualità americana non si è limitata alla semplice vicenda politica e alla storia senza fine della riforma fiscale americana. Mercoledì, la Federal Reserve, come da copione, ha rialzato i tassi per la terza volta quest’anno. Ampiamente anticipata, questa decisione ha impattato poco i tassi a lungo termine. Durante l’ultima conferenza stampa come capo della Fed, Janet Yellen ha deciso di dipingere un quadro idilliaco: non solo i membri del FOMC hanno innalzato le loro previsioni di crescita per il 2018 – tenendo conto dell’effetto della riforma fiscale -, ma la disoccupazione dovrebbe continuare a scendere senza generare tensioni inflazionistiche. L’innalzamento dei prezzi rimarrà inferiore al 2% nel 2018. Un quadro che giustifica il mantenimento, da parte della Fed, di un ritmo di crescita dei tassi «graduale», con tre rialzi previsti per il 2018. Ma è davvero attendibile una crescita solida, senza rischio di inflazione e senza bolla finanziaria …?

Varie sfumature possono modificare l’incontestabile scenario dipinto: la Fed sconta l’impatto della riforma fiscale nell’innalzamento delle sue previsioni di crescita riconoscendo che è limitato a 10 anni e che è difficilmente quantificabile. Janet Yellen, poi, continua a parlare di «enigma» del basso livello di inflazione attribuendolo però a fattori «transitori». Pur affermando di non credere alla formazione di una «bolla» sui mercati azionari, la presidente uscente della Fed ha riconosciuto che questi ultimi già scontavano la riduzione delle imposte.

In altri termini, Janet Yellen non ha assolutamente fornito elementi di novità e i suoi consigli a Jerome Powell ci confortano nel costatare che la Fed continuerà a dipendere dai dati economici. Magari troppo?

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