“Come ho imparato a smettere di preoccuparmi e ad amare il boom”

A cura di Stuart Canning, M&G Investments
Uno dei luoghi comuni più triti degli ultimi due anni circa è l’idea che quello recente sia stato “il mercato toro più odiato della storia”. Oggi l’atteggiamento sta cambiando
Dave nell’estate del 2016 ha descritto un momento cruciale nella psicologia degli investitori e nella definizione dei prezzi degli asset: l’abbandono incondizionato di qualsiasi ipotesi che l’economia mondiale sarebbe tornata alla “normalità” e anche, per gli investitori, un picco di desiderio di sicurezza, protezione dai drawdown e rendimenti “non correlati”.
Queste condizioni ci hanno preparato per il comportamento del mercato visto da allora: performance robuste degli asset di rischio e, soprattutto, un costo associato alla ricerca di sicurezza.
Oggi il mondo dà un’impressione molto diversa. Nel quarto trimestre, sono emersi più segnali del fatto che gli investitori aspirano ai guadagni potenzialmente realizzabili, anziché puntare in primo luogo a proteggere il capitale nel breve termine. Nell’arco di 12 mesi, siamo passati da una situazione di profondo sconforto a un ambiente in cui i mercati vengono spesso definiti euforici.

Il cambiamento è avvenuto nell’ultimo trimestre dell’anno. Gli asset di rischio (con l’eccezione dei mercati azionari europei) in generale sono andati molto bene: l’indice S&P è riuscito a chiudere l’anno solare con una performance (totale) positiva in ogni singolo mese, e l’apprezzamento significativo di diverse commodity ha dato sostegno alle azioni e alle valute del mondo emergente. Gli spread sui titoli societari high yield statunitensi hanno raggiunto i livelli più bassi dal 2014.

I mercati sono davvero euforici e questo che importanza ha?
Intuitivamente, ha senso che quando gli investitori sono molto ottimisti sul futuro (e questo ottimismo trova riflesso nei prezzi), diventano vulnerabili a una delusione. Per questo esiste l’espressione “prezzati per la perfezione” (che è il concetto opposto di “margine di sicurezza”).
A novembre Dave ha parlato in un post di quanto sia difficile misurare il sentiment in modo meccanicistico. Conta di più l’esperienza: chi c’era ai tempi della bolla tecnologica descrive l’ambiente di allora un po’ come il bitcoin di oggi: era diventato un argomento di conversazione alle feste, il terreno su cui competere a colpi di vanterie, e aveva attirato sul mercato gente che non aveva mai investito prima.
Oggi il mercato azionario non dà affatto questa idea, anzi, il consenso vira piuttosto verso un profondo senso di scetticismo e preoccupazione. Sembrano più numerosi i commentatori che vedono euforici tutti gli altri di quelli che si dichiarano loro stessi ottimisti. Capita spesso, come nella nota recente firmata da Jeremy Grantham di GMO, di leggere prospettive con “orizzonte temporale duplice” di questo tipo: “il mercato salirà ancora per un po’, ma è sopravvalutato e quindi alla fine dovrà per forza scendere al di sotto del livello attuale”.
Sembra di sentire i commenti sul bitcoin (“penso che sia una bolla, ma non assumerei una posizione corta”) ed è una reazione umana comune quando le nostre aspettative vengono smentite dai prezzi. Se il mondo non si conforma alle nostre convinzioni, la prima reazione è pensare che sia una cosa temporanea.
Il picco di euforia, d’altro canto, si crea quando il consenso si decide a credere nella nuova narrazione: pensate a come erano stati derisi quelli che avevano previsto la bolla dei mercati azionari alla fine degli anni Novanta, fino al momento del crollo, oppure a chi aveva parlato di bolle obbligazionarie ma poi, per metà del 2016, aveva sostanzialmente smesso di farlo.
L’elefante nella stanza
In ultima analisi, qualsiasi ipotesi sull’umore dell’intero mercato è soggettiva. Nel migliore dei casi, possiamo averne solo una sensazione generale e l’esperienza gioca un ruolo cruciale. Inoltre, non serve necessariamente l’euforia perché il mercato crolli, come ha dimostrato il 2008. Per questo non dobbiamo perdere di vista le valutazioni.
In quest’ottica, la storia più importante del quarto trimestre è senza dubbio l’ascesa continuata dei rendimenti sui Treasury a 2 anni.

Nella misura in cui rappresentano un tasso esente da rischio, tali rendimenti sono una base imprescindibile per la valutazione di tutti gli asset. Nel 2017 i tassi in aumento non hanno creato pressioni su altri attivi, neanche nel segmento lungo della curva dei rendimenti USA.
Questo perché, sebbene gli investitori abbiano dovuto fare i conti con la realtà dei dati macroeconomici più solidi, persiste tuttora la convinzione che i tassi dovranno rimanere bassi a lungo termine e che i Treasury possono svolgere un ruolo diversificante all’interno dei portafogli.

Forse si spiega con la supposizione che lo scenario ideale di crescita vigorosa e bassa inflazione visto nel 2017 resterà intatto. Tuttavia, dal mio punto di vista, riflette anche la convinzione che i dati robusti in tutto il mondo siano di natura temporanea: la tesi della “stagnazione strutturale” è stata messa alla prova, ma non abbandonata.
L’umore del mercato sta cambiando rapidamente, ma i segnali di euforia che abbiamo già osservato sono ancora mitigati da questo scetticismo sul lungo periodo. Ciò trova riflesso nella curva dei rendimenti e nei livelli dei premi al rischio azionario su scala mondiale. Se si diffonde la fiducia nella sostenibilità della crescita globale, potrebbero emergere forze contrastanti: da un lato, un’euforia più intensa e, dall’altro, tassi a pronti più elevati che comincerebbero a premere sugli asset che sono stati i più diretti beneficiari dell’ambiente di basso costo del denaro. Gli investitori dovranno rispondere a queste dinamiche con prontezza e selettività.

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