Il mondo strano e spaventoso dei tassi in ascesa: il mercato dovrà scegliere

A cura di Stuart Canning, M&G Investments
I tassi d’interesse reali sono un elemento di ancoraggio per la valutazione di tutti gli asset. La teoria classica dell’interesse sostiene che come “tasso di sconto” questo dato incorpora la preferenza relativa del mercato per i contanti oggi, anziché in futuro.
Il tasso a pronti statunitense è senza dubbio il migliore indicatore disponibile del tasso d’interesse “esente da rischio” e sta aumentando. Con i tassi ufficiali e i Treasury a più breve scadenza saliti in misura significativa negli ultimi due anni, i mercati globali degli asset sono seduti su una polveriera?
Lo strano: i dilemmi della curva dei rendimenti
A logica, l’impatto più diretto di tassi ufficiali e dei Treasury a breve più alti dovrebbe farsi sentire sui Treasury con scadenza più lontana e quando questo non succede, si può creare una certa confusione.
Eppure non dovrebbe sorprendere. Un articolo uscito su FT alphaville nel 2015 aveva già richiamato le fasi precedenti di appiattimento della curva USA negli anni Ottanta e Novanta, nonché il più famoso “dilemma di Greenspan” a metà degli anni Duemila.

Nonostante questo, i commentatori di mercato sono apparsi di nuovo confusi l’anno scorso, soprattutto di fronte ai rendimenti decennali in calo negli Stati Uniti in un ambiente di tassi ufficiali in aumento.
 

Come ha scritto Tristan Hanson a novembre, non dovrebbe essere un fenomeno sorprendente, e come ho accennato anch’io qualche settimana fa, ci sono altri fattori che incidono sui rendimenti dei Treasury a lunga scadenza, in particolare le aspettative sulla politica monetaria e l’inflazione nel lungo periodo (più che su base ciclica), ma anche le percepite proprietà assicurative che potrebbero offrire tali strumenti. Altri asset avranno ancora più fattori guida della valutazione, data la maggiore incertezza sulla natura dei flussi di cassa.
Lo spaventoso
In ogni modo, il livello dei tassi prima o poi influenza inevitabilmente anche altri asset. Per dirla in termini semplicistici, possiamo considerare il rapporto in questo modo: se la liquidità offre una remunerazione del 4%, perché mai dovremmo scegliere di guadagnare altrettanto sui (normalmente) più rischiosi titoli societari, azionari o obbligazionari che siano?
Il motivo per cui le reazioni degli altri asset al rialzo dei tassi negli Stati Uniti sono state relativamente tenui è che il mercato lo considera un fenomeno momentaneo.
Fino a tempi molto recenti, sembrava infatti che il 2% fosse visto come un livello chiave per il tasso sui Fed fund: solo un mese fa, la curva dei future rifletteva la convinzione che i tassi avrebbero superato quella soglia ad aprile del 2019 per poi fermarsi lì.
Oggi le aspettative indicano un tempo più breve per raggiungere il 2% e questo punto di ancoraggio appare meno solido.

I motivi potrebbero essere due: il mercato è scettico sulla sostenibilità della crescita che stiamo osservando, sta (giustamente) mettendo in dubbio l’assunto tradizionalmente accettato secondo cui i tassi di crescita e di riferimento misurati hanno una stretta relazione e/o è dell’idea che le imprese e le famiglie non abbiano margine per tollerare tassi più elevati, visti i livelli di indebitamento, l’alto numero di società “zombie” e così via.
Una faccia nuova alla Fed
Le argomentazioni discusse qui sopra sono state uno specchio fedele del consenso fino al momento cruciale a metà del 2016. A quel punto, un aumento dei tassi sembrava un’ipotesi estremamente remota e il rischio principale di errore sul fronte della politica era quello di una contrazione eccessiva (le “fibrillazioni da tapering” sono derivate in parte da questo).
Poi le cose sono cambiate rapidamente e, con l’arrivo di una faccia nuova al vertice della Fed, ora il rischio principale di errore è il mantenimento di una politica troppo espansiva troppo a lungo. Tuttavia, scavare nei meandri della personalità e delle convinzioni di Jerome Powell probabilmente vorrebbe dire dedicare la massima attenzione al dettaglio sbagliato. Come ha sottolineato Richard Woolnough su Bond Vigilantes la settimana scorsa, quello che conta sono i dati. È difficile controllare le economie e non sempre le messe a punto di precisione sono fattibili solo con uno strumento spuntato come la politica dei tassi; il passato è pieno di periodi in cui sembrava che i banchieri centrali, anche volendo, non sarebbero riusciti a stare davanti alla curva.
Fare i conti con l’ambiente
Come sempre, siamo convinti che la valutazione sia un fattore cruciale per vedersela con un ambiente incerto come quello attuale. Se i tassi restano bassi, molti asset che sono andati straordinariamente bene negli ultimi dieci anni magari non subiranno una correzione, ma potrebbero offrire remunerazioni tutt’altro che appetibili (e in molti casi, ancora negative al netto dell’inflazione). Se gli investitori cominciano a pensare che il rialzo dei tassi potrebbe durare più a lungo, potremmo vedere una volatilità molto più elevata e una maggiore esigenza di selettività all’interno delle asset class.
Gli attivi sensibili ai rendimenti obbligazionari, come le aree “difensive” del mercato azionario tipo quella dei beni di consumo primari, hanno beneficiato dell’ambiente di tassi in calo fin dall’inizio della crisi finanziaria. Lo si vede nel grafico in basso, che mostra la performance dei beni primari globali rispetto all’indice azionario mondiale (la linea viola) e ai rendimenti sui Treasury USA a 10 anni (la linea rossa). L’incremento dei rendimenti dal 2016 ha pesato su questi titoli su base relativa e, in alcune aree, le valutazioni lasciano tuttora poco margine di sicurezza per attutire l’impatto di ulteriori rialzi.

La selettività sarà fondamentale anche nell’area delle obbligazioni societarie. A livello di indice, i titoli corporate statunitensi (come mostra l’indice BofA Merrill Lynch US Corporate Master in basso) si sono sganciati dai rendimenti dei Treasury durante la crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona e, più di recente, di fronte al crollo dei prezzi delle commodity. Da questi punti di valore iniziali più attraenti, le obbligazioni hanno dimostrato una relativa tenuta mentre i rendimenti sui Treasury aumentavano, fra il 2009 e il 2011, come pure durante e subito dopo la fase di tapering.
Ultimamente, con gli spread a livelli più normali, il rapporto fra rendimenti è apparso più stretto. Richard Woolnough ha notato che alcuni (in particolare Bill Gross) hanno messo in luce la rottura tecnica recente dei rendimenti sui Treasury decennali dalle rispettive fasce di oscillazione. Le aree del mercato dei titoli corporate in cui gli spread offrivano una remunerazione del rischio limitata potrebbero risultare vulnerabili, se questo fenomeno dovesse persistere.

Per fortuna la varietà degli asset a reddito fisso implica l’esistenza di una gamma di strumenti per affrontare ambienti di questo tipo. Sarà cruciale la selettività, ma anche la gestione attiva della duration e delle valute e l’uso di strumenti come i titoli a tasso variabile, quelli indicizzati all’inflazione e le obbligazioni “kicker”.
Conclusioni
Come ho scritto la settimana scorsa, l’unico posto in cui è facile generare rendimenti attraverso la gestione attiva è il mondo del senno di poi. Ci sono sempre nuove sfide e nuove incertezze, e un profondo cambiamento nella dinamica dei tassi d’interesse, se mai dovesse esserci, rientrerebbe senz’altro in queste categorie. L’abbiamo scritto ripetutamente: una deviazione dalle tendenze degli ultimi vent’anni inciderà con modalità inedite sui rendimenti, la volatilità e le correlazioni. In questi momenti sarà necessario avere flessibilità ed essere molto selettivi nel costruire portafogli multi-asset.

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