Fine dei “soldi facili”

A cura di Stuart Canning, M&G Investments
È vero che “i soldi facili sono già stati fatti”? È qualcosa che abbiamo sentito spesso negli ultimi due anni e che, a quanto pare, sentiamo dire ancora di più spesso.

Ma come aveva sottolineato Morgan Housel nel 2015:

Una teoria simile è stata formulata in questo pezzo dell’anno scorso (che peraltro offre anche un bel riepilogo dei principali episodi di mercato dell’ultimo decennio), quindi non ripeterò gli stessi punti già trattati. Credo però che oggi valga la pena di fare alcune osservazioni.
Cosa c’era di “facile”?
“I soldi facili sono già stati fatti” è uno di quei cliché che vengono buttati lì un po’ ovunque, ma difficilmente meritano un approfondimento. Pensiamo di sapere cosa vuol dire, ma la frase può sottintendere tante argomentazioni diverse, spesso anche mescolate fra loro.
Intendiamo che i guadagni generati sono stati “facili” nel senso che erano “prevedibili”? Oppure “facili” nel senso di “non emotivamente stressanti”? O ancora vogliamo dire che è stato facile guadagnare perché un’ampia gamma di asset ha mostrato buone performance e quindi non è servito un lavoro di selezione particolarmente impegnativo? Possibile che invece più semplicemente oggi associamo i “soldi facili” alla “politica del denaro facile” in quanto a basso costo?
Riflettere su cosa intendiamo per “soldi facili” può essere utile per capire i meccanismi di condizionamento cui siamo esposti, il clima di mercato attuale e il modo in cui dovremmo considerare le valutazioni.
Reinventare la storia: il bias del senno di poi
Le percezioni di rischio variabili degli investitori non riguardano solo il futuro, che può apparire più incoraggiante, ma possono essere anche frutto di una rivalutazione del passato.
In quanto esseri umani, abbiamo la tendenza a dimenticare come ci sentivamo un tempo. Una delle manifestazioni più note di questo fenomeno si chiama bias retrospettivo o del senno di poi, ossia la tendenza a interpretare l’evoluzione di eventi passati come più prevedibile di quanto non fosse in realtà (“avevo un presentimento che sarebbe andata così“). È un meccanismo di difesa dell’ego: il cervello non vuole metterci di fronte a tutte le volte in cui ci siamo sbagliati, quindi cerca di proteggerci dai nostri errori, laddove possibile.
Robert Shiller ne ha parlato brevemente giusto martedì a Davos, descrivendo il brutto colpo all’autostima subito da chi non aveva partecipato al rimbalzo azionario (o dei bitcoin):

Siccome abbiamo visto gli investimenti generare guadagni robusti, guardiamo indietro in cerca di segnali disseminati lungo la strada che possano spiegarne il motivo. Concentrandoci su questi a scapito di altri segnali, ci convinciamo che il rally fosse più ovvio di quanto sia sembrato in realtà (come è spesso il caso, il tipo di frasi che usiamo nella vita di tutti i giorni riflette i nostri bias; ad esempio, tendiamo a dire cose come “i segnali c’erano tutti“).
Dipendenza dal percorso e la regola del “picco-fine”
Un tratto comportamentale meno noto è la “regola del picco-fine”. Gli psicologi suggeriscono che il modo in cui valutiamo il passato (ad esempio, come esperienza “bella” o “brutta”) dipende non da come ci siamo sentiti per l’intera durata del periodo, ma dalla considerazione di singoli momenti di tempo intermedi.
Più nel dettaglio, è dimostrato che diamo più peso all’esperienza più recente (la “fine”) e ai momenti più estremi (il “picco”), mentre tendiamo a tralasciare quanto tempo abbiamo trascorso in uno stato specifico. Per esempio, sono stati fatti esperimenti in cui i partecipanti venivano sottoposti a due prove:

  • tenere le mani per un minuto in acqua dolorosamente gelata e poi altri 30 secondi in acqua a una temperatura leggermente superiore (ma sempre fredda);
  • e solo un minuto in acqua fredda.

Alla domanda su quale esperienza avrebbero preferito ripetere, la maggioranza ha scelto la prima, anche se si potrebbe pensare che nel complesso fosse stata la più negativa. Il ricordo della “fine” (leggermente) più piacevole ha fatto sì che valutassero quella prima prova in modo più favorevole rispetto al dolore costante associato alla seconda, tenendo poco conto del tempo effettivo trascorso in ognuna delle due situazioni.
(Questo potrebbe sembrare meno attinente alla nostra esperienza rispetto al bias del senno di poi, ma pensate alle occasioni in cui usiamo frasi come “non era così male“, oppure alla decisione di ripetere esperienze difficili pur avendo giurato a noi stessi di non farlo “mai più” la prima volta).
La dipendenza dal percorso pertanto incide sulla nostra percezione del passato. Considerate i mercati azionari negli ultimi cinque anni:

la nostra esperienza recente è stata molto positiva. Ci fa sentire meglio riguardo al picco di dolore di inizio 2016 e di certo ci fa dimenticare il periodo di quasi due anni in cui non abbiamo guadagnato niente, in termini di prezzo. La nostra percezione di dove siamo adesso è influenzata dal percorso che abbiamo fatto per arrivarci.
Politica del denaro facile
Un altro esempio della teoria dei “soldi facili” potrebbe essere questo: “non si potevano prevedere i rendimenti che poi ci sono stati, ma se ci avessero detto in anticipo che tassi ufficiali e quanto QE avremmo avuto, a quel punto le performance successive sarebbero diventate scontate.
Potrebbe esserci qualcosa di vero in questo, ma è un’osservazione inutile per gli investitori. I tassi ufficiali svolgono un ruolo cruciale nell’ancoraggio delle valutazioni di tutti gli asset, ma non in modo lineare. Ad esempio, per gran parte degli ultimi dieci anni, i mercati azionari non hanno mostrato rivalutazioni in concomitanza dei cali dei tassi d’interesse, anzi, casomai è successo il contrario.
Anche i premi al rischio si sono mossi perché l’ambiente all’origine della politica favorevole è lo stesso in cui abbiamo temuto costantemente che ci fosse una recessione o un collasso sistemico in agguato dietro l’angolo.
Né possiamo dire che una contrazione della politica comporterà un’inversione simmetrica del comportamento di prezzo degli asset evidenziato durante la fase di allentamento. Come è accaduto nell’ultimo anno, i tassi ufficiali in rialzo possono essere associati a risultati robusti in termini di crescita e profitti. Ma non è detto che i tassi d’interesse salgano e, in questo caso, i rendimenti attesi nel lungo termine sono inferiori a quelli cui ci siamo abituati, come Anti Ilmanen ha sottolineato di recente.
Conclusione
L’ “era dei soldi facili” in realtà è stata caratterizzata da una sensazione profonda di paura e disagio, ed è esattamente questo il motivo per cui gli asset offrivano la remunerazione del rischio che ha consentito di generare guadagni notevoli.
È vero che i tassi d’interesse reali in declino nel mondo hanno avuto un ruolo importante in tutto questo (anche se forse è improprio considerarla un’era di “soldi facili” con i tassi a pronti negativi, al netto dell’inflazione) e il percorso dei tassi da questo punto in poi è cruciale. Se i tassi non si muovono, e altri asset registrano un’ulteriore rivalutazione, potrebbe anche significare che arriveremo a un punto in cui il livello di rendimenti generati si rivela irripetibile.
Tuttavia, se la fine dei “soldi facili” implica anche la fine dei timori degli ultimi dieci anni e remunerazioni più elevate sulla liquidità e altri asset meno volatili, magari dovrebbe essere la benvenuta.

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