Vanguard, il nuovo sceriffo del risparmio gestito

I numeri parlano da soli. C’è un nuovo sceriffo nella città del risparmio gestito americano e mondiale: si chiama Vanguard. Il gruppo guidato da William McNabb III (nella foto) è infatti diventato il primo asset manager a stelle e strisce, superando concorrenti blasonati come American Funds e Fidelity Investments e lasciandosi alle spalle giganti comeBlackRock e Pimco. Così quello in corso si profila come un altro anno record per Vanguard, che nei primi 8 mesi del 2016 ha raccolto sottoscrizioni per i suoi fondi pari a 198 miliardi di dollari registrando un aumento del 19% rispetto allo stesso periodo del 2015, anno in cui aveva raccolto 236,1 miliardi. Il grande boom di Vanguard è dovuto, oltre che al basso costo dei suoi prodotti indicizzati, alla vera e propria fuga degli investitori statunitensi dai fondi a gestione attiva, esodo pari a 131 miliardi di dollari a luglio di quest’anno mentre 241,8 miliardi di dollari sono finiti nei fondi a gestione passiva, secondo i dati forniti da Morningstar. Oggi Vanguard ha asset in gestione pari a 3,8 trilioni fra fondi ed Etf, con una quota del mercato americano del risparmio gestito del 22% rispetto all’8,4% di American Funds e all’8,3% di Fidelity Investments. Ed è anche il primo gestore mondiale, considerando solo i fondi.

LA NASCITA 40 ANNI FA – La consacrazione del gruppo come numero uno degli Usa arriva a 40 anni dal sua nascita. E come tutte le storie di successo all’inizio c’è un uomo diventato una leggenda degli investitori a stelle e strisce, alla pari di Warren Buffett. Si chiama John Clifton “Jack” Bogle, nato nel fatidico 1929, l’anno del grande crash di Wall Street che travolse anche i destini della sua famiglia. Laureato a Princeton, Bogle entrò negli anni Cinquanta in quello che allora era un importante asset manager americano, Wellington, dove fu promosso quasi subito viste le sue grandi abilità di gestione. Passarono quasi vent’anni e Bogle, che nel frattempo aveva sposato Eve da cui ha avuto 6 figli, silurato daWellington nel 1976 a Malvern in Pennsylvania fondò Vanguard. Il 31 agosto di quell’anno Bogle lanciò il primo First Index Investment Trust (oggi Vanguard 500 Index Fund), sulla base di un’invenzione tutta sua: niente più gestione attiva dei fondi, quella secondo lui alla base del Grande Crollo, ma un approccio “passivo”, che replicava fedelmente l’indice scelto per ogni asset class. Ovviamente i costi della gestione passiva non potevano non essere di gran lunga minori di quelli dello stile contrario e questo, alla lunga, ha fatto la differenza in termini di appetibilità per gli investitori. L’inizio, comunque fu durissimo e il prodotto di Bogle che avrebbe dovuto spaccare il mondo sembrò un flop. Raccolse all’inizio, infatti, appena11,3 milioni dei 150 milioni di target e le banche d’investimento che lo avevano collocato erano così insoddisfatte che chiesero la restituzione del denaro. “All’inferno, non se ne parla”, rispose Bogle. I fatti gli hanno dato ampiamente ragione perché quel fondo ora gestisce asset per 252 miliardi.

SOTTOSCRITTORI E AZIONISTI – Ma c’è un altro elemento distintivo che costituisce la chiave del successo di Vanguard. Si tratta infatti dell’unico grande asset manager al mondo posseduto dai sottoscrittori dei suoi fondi, il che lo rende completamente immune da quei conflitti d’interesse. inevitabilmente, prima o poi e nonostante tutte le “muraglie cinesi” del caso, colpiscono gli altri fund manager controllati da gruppi bancari o finanziari. Perché gli utili che vengono generati servono a ridurre ulteriormente le già basse commissioni che sono applicate sui prodotti di casa, tanto che l’expense ratio medio di Vanguard è appena dello 0,18%, 18 punti base che hanno alla lunga un effetto schiacciasassi sulle fees e quindi sui margini reddituali dell’intera industria dei fondi. Ciò detto, molto è cambiato in questi 40 anni di crescita ininterrotta. Il gruppo è rimasto fedele ai suoi principi-base, ma altrove è andato al di là delle linee tracciate da Bogle. Gran parte dello sviluppo degli ultimi anni, infatti, è dovuta al segmento degli Etf e non dei puri fondi-indice; quegli Etf che il fondatore aveva reputato all’inizio essere strumenti utili solo per il trading veloce e per la speculazione. Invece i “replicanti” di Vanguard, che per un’eccezione concessa dalla Sec sono considerati classi di azioni dei suoi fondi indicizzati, hanno aiutato il gigante di Malvern ad aprire un nuovo canale di distribuzione specialmente fra i consulenti finanziari e i broker. molto più internazionale che in passato. Negli anni novanta Bogle invitava i risparmiatori americani a non scommettere al fuori dei propri confini, ritenendo sufficienti le attività estere dei colossi a stelle e strisce. Oggi invece il gruppo spinge i suoi clienti americani, pari al 90% della base clienti per asset gestiti, a dedicare eguale attenzione ai mercati stranieri.

TOTAL BOND BATTE TOTAL RETURN – Un’altra data storica, questa molto più recente, segna il lungo cammino dell’asset manager il cui simbolo è un veliero che solca i mari alla ricerca di nuovi paesi da esplorare e nuove terre da conquistare. Da fine aprile 2015, infatti, il più grande fondo obbligazionario del mondo non è più lo storico Pimco Total Return, ma il prodotto di Vanguard denominato Total Bond Market. Il sorpasso epocale è avvenuto perché il fondo di Pimco, reduce da due anni di riscatti, aveva subito ancora deflussi per 5,6 miliardi di dollari nell’aprile dello scorso anno e così i suoi asset totali si erano ridotti a 110,4 miliardi. Per contro il fondo di Vanguard era arrivato a detenere nello stesso mese asset per 117,3 miliardi. Il megafondo di Pimco, che nell’aprile del 2013 contava su aum per 293 miliardi, aveva sofferto la progressiva disaffezione degli investitori, culminata nello scorso settembre con l’uscita polemica di Bill Gross – approdato a Janus Capital – e sancita dai 103 miliardi di riscatti nel 2014. Il successo del Total Bond Market si deve a Joshua Barrickman, nato un anno prima della fondazione del gruppo ed entrato in Vanguard nel 1998. Un fund manager al quale piacciono solo i risultati, non la pubblicità e che, in perfetto stile Vanguard, lavora in un ufficio di 55 metri quadrati rispetto ai 200 che il “guru” Gross occupava a Newport Beach (California), quando sulla sua testa brillava la corona di “Bond King”.

ORIZZONTI DI BUSINESS – Ora che Vanguard è arrivata sulla vetta più alta del risparmio gestito americano, gli executive del gruppo, a cominciare da McNabb, sanno che la strada per consolidare il primato si è fatta molto più difficile. Essere un asset manager caratterizzato dai costi bassi, infatti, non basta più perché la lotta sul fronte delle commissioni ha visto impegnarsi recentemente anche BlackRock, Schwab e Fidelity, tutti disposti a sacrificare margini di guadagno pur di fare concorrenza al gigante della Pennsylvania, così come la crescita degli Etf e l’acquisto di iShares da parte di BlackRock nel 2008 hanno cambiato il contesto competitivo. In più ci sono limiti oggettivi oltre i quali non può spingersi la strategia di riduzione pura e semplice dell’expense ratio. Da qui la necessità per Vanguard di trovare nuovi orizzonti di business come il rivoluzionario Pas, acronimo di Personal Advisory Services, lanciato nel maggio dello scorso anno. Si tratta di un modello di consulenza ibrido, ma molto più personalizzato dei robo-advisor, che offre advisory a costi decisamente più ridotti di quelli praticati dai consulenti finanziari e broker tradizionali, pari allo 0,3% per ogni conto iniziale minimo di 50mila dollari. Le fees si riducono poi progressivamente e quando il portafoglio raggiunge il mezzo milione di dollari ai clienti viene assegnato un solo advisor rispetto al pool iniziale dell’investimento base. Con il Pas Vanguard ha già raccolto 41 miliardi di dollari, perché il prodotto si caratterizza per offrire un buon livello di consulenza personalizzata a costi relativamente bassi.

“PEGGIORI DEL MARXISMO” – Cosa può fermare la “valanga” Vanguard, come l’hanno definita in casa Morningstar dove di fondi se ne intendono? Qualcuno ha provato a ragionare in termini di insufficienti investimenti in tecnologia e in persone, considerato che nel 2010 il gruppo di Malvern aveva 12.600 impiegati per 1,3 trilioni di asset gestiti e sei anni dopo, a fronte di aum più che raddoppiati, gli addetti sono saliti a soli 15mila rispetto ai 45mila di Fidelity che gestisce masse minori di Vanguard. Qualcuno ha invece provato ad attaccare frontalmente la filosofia del gruppo. “La strada silenziosa verso la servitù della gleba: perché gli investimenti passivi sono peggiori del marxismo”, è il titolo di un provocatorio studio pubblicato poche settimane fa dal broker Sanford Bernstein & Co., in cui si contesta l’uso dei fondi indicizzati e si sottolinea che grazie alla loro crescita esponenziale i mercati finiranno per non prezzare più adeguatamente le asset class e allocheranno i capitali in modo inefficiente. Una tesi che Bogle ha definito “idiota” perché la gestione indicizzata, oggi complessivamente pari al 30% del mercato americano del risparmio gestito, deve arrivare a pesare almeno il doppio per avere conseguenze sui prezzi, mentre un effetto lo ha già avuto sicuramente dal lato dei clienti, facendo risparmiare loro almeno 1 trilione di dollari di commissioni nell’ultimo quarantennio.

CRESCITA INTERNAZIONALE – Oggi Vanguard, viste le dimensioni, è giocoforza diventata azionista tramite i suoi fondi di tantissime società quotate in giro per il mondo: un lavoro molto delicato al quale sovrintende un team di 12 persone che analizza ai raggi X la corporate governance degli investimenti. Di più: sebbene il gigante di Malvern gestisca fuori dai confini americani solo 300 miliardi di dollari, non avendo altrove quella notorietà di marchio di cui gode in casa, le operations sono integrate su scala globale. Con 12 uffici internazionali, il gruppo ha la possibilità di offrire inserimenti e percorsi di carriera a manager di valore mentre i trading desk in Asia e in Europa garantiscono l’operatività 24 ore su 24, consentendo il miglior eseguito, che si riflette nei costi più bassi per le operazioni sui portafogli dei fondi. Vanguard ha poi da poco deciso di sbarcare in forza in Europa nel business dei replicanti, dove già conta negli Stati Uniti asset per 450 miliardi di dollari, lanciando quattro Etf a gestione attiva i cui costi sono volutamente inferiori a quelli di prodotti simili. Non bisogna poi dimenticare che il gruppo di Malvern è impegnato, seppur con dimensioni di gran lunga minori, anche nella gestione attiva, con fondi che quest’anno hanno raccolto quasi 30 miliardi a luglio scorso anno su anno, rispetto ai 38 miliardi persi da Fidelity. Insomma, quarant’anni dopo la scommessa lanciata da Bogle e oggi condotta da McNabb è vinta. Chissà se lo sarebbe anche in Italia, una volta che Vanguard decidesse di aprire bottega nel nostro Paese.

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