Volatilità: virus, bolla o entrambe le cose?

A cura di Eric Lonergan, M&G Investments
Il “flash crash” recente è un evento degno di nota. Negli ultimi 25 anni ci sono state soltanto tre fasi in cui l’indice S&P500 ha registrato movimenti così rapidi in un arco di tempo breve, come mi ha fatto notare l’arguto collega Marc Beckenstrater (si veda il grafico 1). Scatti simili in questo quarto di secolo sono avvenuti in concomitanza con accadimenti di rilievo: la crisi asiatica, lo scoppio della bolla tecnologica e la Grande crisi finanziaria. L’ultimo crollo precipitoso si distingue per essersi verificato in assenza di notizie particolari. Ma allora, che sta succedendo?

Il virus della volatilità
Quando i clienti mi chiedono quale sia la bolla più grande che esiste, di solito indico la volatilità: non la bassa volatilità o l’alta volatilità, ma il concetto di volatilità in sé. L’analisi del valore a rischio (VaR), i parametri di rischio attivo basati sulla volatilità, le strategie di volatilità anche note come volatility targeting, la cosiddetta risk parity, o gestione del rischio, sono tutte mode che hanno preso in ostaggio la coscienza collettiva.
Trent’anni fa, a parlare di volatilità era solo una piccola minoranza di commentatori e investitori professionali (il lancio dell’indice Vix risale al 1993). Al di là dell’interesse per l’argomento che poteva avere la maggioranza, era un po’ come la famosa massima di Warren Buffet sui pericoli di seguire qualsiasi consiglio di investimento che comportasse l’uso dell’ alfabeto greco.
Malgrado quello che succedeva nei dipartimenti di finanza in ambito accademico, nel mondo reale il rischio veniva considerato in tutt’altro modo: quasi tutti i grandi investitori indicavano le oscillazioni dei prezzi di mercato come fonti di opportunità. È famosa la descrizione di Ben Graham del maniaco-depressivo Mr. Market al servizio dell’investitore intelligente con un orizzonte di lungo periodo. Il rischio non era certamente la varianza dei prezzi, e neanche un movimento estremo, ma una perdita permanente o sostenuta. Negli anni Trenta del secolo scorso, Keynes descriveva la costruzione di portafoglio ottimale in questi termini: il segreto di un buon investimento era evitare quello che aveva chiamato un “perdente”, ossia un titolo azionario il cui valore era stato distrutto per sempre.
Oggi le strutture basate sulla volatilità sono onnipresenti. Il rischio di portafoglio viene misurato con i modelli VaR, che tentano di cogliere la volatilità di un portafoglio e specificare le perdite probabili con gradi variabili di fiducia statistica, in base a ipotesi di correlazioni e distribuzioni di rendimento. Ovunque gli investitori sono chiamati a definire il loro “profilo di rischio”, col risultato che la costruzione dei portafogli persegue determinati livelli di volatilità: gli anziani con scarsa tolleranza al rischio sono incoraggiati a investire in fondi meno volatili, e i giovani professionisti più propensi al rischio a posizionarsi sui gradini più alti nella scala di volatilità.
L’ossessione per questo aspetto pervade ogni angolo dell’industria mondiale dell’investimento professionale. La volatilità è il perno dei processi adottati da chi ha il compito di gestire il rischio, gli investitori istituzionali esigono obiettivi di volatilità, il settore privato e gli enti regolatori usano la volatilità come la lente attraverso la quale osservare tutto il resto.
I motivi di questo atteggiamento sono comprensibili: la volatilità, intesa come deviazione standard del prezzo di un titolo, si può misurare facilmente. E la misurazione è il santo graal: se puoi misurare, puoi anche calcolare.
Però ci sono tre problemi importanti.

  1. Il comportamento degli investitori sta diventando più correlato

Il primo problema, in genere scarsamente riconosciuto, è che il comportamento degli investitori sta diventando correlato, un’espressione di linguaggio settoriale per dire che più persone si comportano esattamente allo stesso modo. Questa tesi è stata avanzata da John Authers nel suo libro The Fearful Rise of Markets e suggerita da Andrew Lo in Adaptive Markets Hypothesis.
La correlazione di convinzioni e comportamento è una delle spiegazioni più plausibili del motivo per cui i prezzi degli asset spesso mostrano movimenti molto più ampi di quanto sarebbe giustificato dalle notizie di variazioni a livello dei fondamentali. Lo spiega formalmente il lavoro di Mordecai Kurz della Stanford University, forse il più sottovalutato innovatore della teoria finanziaria degli ultimi 50 anni.
L’intuizione è relativamente semplice: se gli investitori sono diversi e hanno obiettivi, preferenze e convinzioni sul futuro differenti, c’è una probabilità maggiore di scambi ordinati, nel senso che i compratori troveranno facilmente dei venditori e viceversa. Ma se il comportamento è correlato e tutti tentano di andare nella stessa direzione, serviranno movimenti di prezzo più ampi perché il mercato possa funzionare. Il comportamento correlato accentua i movimenti di prezzo.

  1. La misurazione e le grandi quantità di dati portano pseudo-scienza ed eccesso di fiducia.

La tecnologia ha svolto un ruolo importante come vettore di questo virus: crea infatti un incentivo a quantificare, e questo rappresenta l’attrattiva fondamentale di un parametro del rischio di tipo statistico basato sui prezzi. Disponiamo di enormi quantità di dati, possiamo confrontare tutti i portafogli e utilizzare computer dalla potenza illimitata. Non sorprende, quindi, che il virus della volatilità si sia diffuso fino a contagiare anche gli angoli più remoti dei mercati finanziari assurgendo a fenomeno globale. La tecnologia amplifica la nostra interconnessione: possiamo copiare chiunque e confrontarci con il resto del mondo. I più grandi statistici in ambito finanziario, da Keynes a Markowitz, da Fama a Taleb (che è stato vigorosamente attaccato per l’uso del VaR in particolare), mettono in evidenza quanto poco sappiamo. Quello in cui si muovono gli statistici finanziari è un ambiente che richiede estrema umiltà.

  1. La volatilità non equivale al rischio

Il terzo punto è che la volatilità e il rischio non sono la stessa cosa. La volatilità misura le oscillazioni di valore a breve termine, mentre l’unico vero rischio in un’ottica di lungo periodo è la perdita permanente di capitale. Nella maggior parte dei casi, la volatilità è un indicatore inefficiente della perdita permanente di capitale e, in quanto tale, un parametro inefficiente del rischio.
Di certo la volatilità misurata usando prezzi giornalieri e periodi campione di tre mesi su base mobile, su cui poggia il famoso indice Vix, non dovrebbe essere un parametro di rischio per nessuno, salvo per i trader che effettuano operazioni a leva sul Vix. Gli investitori in teoria non hanno un orizzonte giornaliero e tre mesi rappresentano un periodo campione arbitrario per chiunque abbia un orizzonte di investimento da tre a cinque anni. Per molti investitori sarebbe opportuno pensare in termini almeno quinquennali, se non decennali. Fondamentalmente il rischio non è un numero, o almeno, non soltanto quello.
Bolle
Quella che stiamo vedendo è una bolla? In un certo senso sì, e in parte spiega il motivo per cui i tassi a pronti sono così bassi su scala mondiale. La liquidità ha una volatilità nominale pari a zero, ma implica anche una perdita reale quasi garantita in tutto il mondo sviluppato. Si può considerare sicuro qualcosa che non presenta volatilità, ma fa sempre perdere denaro? In un modello VaR, si può.
L’ultimo flash crash potrebbe indicare le dimensioni di questa bolla. Gavin Jackson del Financial Times ci ricorda che è giusto essere scettici riguardo alla possibilità che ci sia qualcosa di veramente nuovo in gioco quando i mercati collassano, e lo stesso fa Clifford Asness. La propensione a crollare del mercato finanziario è vecchia quanto il mercato stesso.
Però la mia sensazione, che potrebbe anche rivelarsi errata, è che stiamo osservando qualcosa di più pernicioso. L’instabilità endogena sta aumentando, con la volatilità al cuore del fenomeno. La volatilità mostra caratteristiche virali: è emersa nello spazio ristretto di un piccolo gruppo di analisti quantitativi specializzati e poi si è diffusa contagiando tutti gli altri. Si propaga perché possiamo confrontare la volatilità di fondi diversi, misurarla obiettivamente e, come mi viene segnalato spesso, perché l’alternativa quale sarebbe?
La tecnologia non sta limitando i bias comportamentali: li sta amplificando. Le oscillazioni incontrollate dei prezzi degli asset sono state sempre attribuite alla miopia, che spiega il motivo per cui i mercati tendono verso l’alto e spesso corrono a ritmi esponenziali, ma spiega anche i crolli. L’osservazione più affermata della finanza comportamentale è il concetto di avversione miope alla perdita. È gergo specialistico per descrivere quello che hanno sempre osservato i partecipanti al mercato più perspicaci, ossia che gli esseri umani hanno una propensione molto forte a sacrificare i guadagni a lungo termine per evitare il dolore di una perdita immediata. Qualsiasi consulenza di investimento valida, almeno a partire dagli esordi del capitalismo, se non da prima, sottolinea che la pazienza viene premiata.
Sembra assurdo, ma oggi è la bolla di volatilità a creare volatilità. In che modo scoppierà, se mai lo farà?

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