Reddito fisso e valute: alto rendimento, alta tensione

A cura di Pictet Am
Abbiamo assunto un atteggiamento più cauto verso il credito. Si tratta della classe di attivi più costosa nella nostra tabella, vulnerabile a condizioni monetarie più rigide e, storicamente, la prima ad entrare sotto pressione quando i mercati finanziari si sono mossi verso le ultime fasi del ciclo.
Siamo sottopesati sulle obbligazioni societarie europee e adesso stiamo riducendo la posizione sul debito high yield statunitense da neutra a negativa, in risposta ad un aumento del rendimento dei Treasury USA. I rendimenti decennali hanno recentemente sorpassato quota 2,70%, il livello più alto dal 2014. Le obbligazioni high yield statunitensi forse non sono così costose come quelle europee, ma i loro spread non lasciano agli investitori molto spazio di manovra rispetto ad ulteriori cattive notizie provenienti dal mercato obbligazionario. A 345 punti base, gli spread sulle obbligazioni high yield statunitensi sono adesso al livello minimo dall’estate 2006. E il rischio è che la vendita massiccia di Treasury non abbia fatto il suo corso.
Un’economia statunitense in salute, ovvero crescita solida, consumatori ben predisposti, disoccupazione a livelli bassi, sono tutti fattori che suggeriscono un atteggiamento della Fed sempre più aggressivo. Aggiungiamo i tagli fiscali per le aziende previsti dalla riforma voluta dal Presidente Trump, che si prevede possano agire come importante stimolo fiscale a giudicare dalla reazione del mercato azionario, e la possibilità di tre aumenti dei tassi della Fed per quest’anno diventa sempre più concreta, con altro in serbo per il prossimo anno. Poi c’è la piccola questione dell’offerta di Treasury, con la Fed non più intenzionata ad acquistare obbligazioni e la richiesta al Governo USA di finanziare i tagli fiscali di Trump, i manager del settore privato e delle banche straniere dovranno assorbire 1500 miliardi di dollari di Treasury quest’anno e 2000 miliardi di dollari l’anno prossimo, un aumento rispetto ai 500 miliardi di dollari del 2017.
Siamo anche preoccupati della recente impennata dei deflussi dalle obbligazioni high-yield statunitensi, pari a quasi l’1% degli attivi netti detenuti in fondi obbligazionari high yield statunitensi in sole due settimane, secondi i dati di EPFR.
In una situazione normale, condizioni economiche interne positive si sarebbero tradotte in un dollaro forte, ma non in questo caso. Sebbene riteniamo che sia destinato ad indebolirsi nel lungo termine per via, tra l’altro, di una produttività statunitense in calo, la recente debolezza del biglietto verde è tuttora un dilemma. Negli ultimi tre mesi, non solo i dati economici statunitensi si sono rivelati migliori delle attese di mercato ma i differenziali dei tassi d’interesse tra USA ed Eurozona sono cresciuti, il che di norma favorisce il dollaro. Eppure la valuta ha perso circa il 4% sull’euro dall’inizio del 2018.
È possibile che alla base della debolezza del dollaro ci siano fattori tecnici, quali le coperture valutarie delle società e, potenzialmente, l’incremento delle banche centrali delle loro riserve di moneta unica in vista dell’aumento della crescita economica della regione e del fatto che la sua crisi esistenziale pare ormai alle spalle. Ma con fondamentali che non riescono a spiegare i movimenti del cambio, abbiamo deciso di assumere una posizione neutrale sulle valute.
Contemporaneamente, il mercato sta iniziando a rivedere la sua opinione sulla sterlina. La Brexit continuerà a pedinare l’economia britannica per i prossimi anni, ma il fatto che non abbia (ancora) condotto ad una catastrofe economica ha spinto ad una copertura corta sulla sterlina.
Rispondiamo a queste forze contrastanti incrementando le posizioni su euro e sterlina, portandole da sottopesate a neutrali.

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