Di Olivier De Berranger, Chief Investment Officer di La Financière de l’Echiquier
Il Report sull’occupazione americana, pubblicato venerdì 9 marzo, era a dir poco atteso dai mercati. Un mese fa era stato all’origine, infatti, di un forte storno sui mercati azionari dato che gli investitori temevano una crescita dei salari orari superiore al previsto. Poiché il rialzo dei salari minimi da molti annunciato dopo il voto della riforma fiscale era stato recepito solo parzialmente, era lecito anticipare un nuovo incremento dei salari, e forse anche una nuova sorpresa.
La sorpresa c’è stata, effettivamente, ma di segno opposto. A fronte di un dato dello 0,3% anticipato dal consensus, l’aumento mensile dei salari è stato dello 0,1% soltanto. Quanto alla misura dell’occupazione in termini «volumetrici», sia attraverso la creazione di posti di lavoro che in base alle ore settimanali lavorate, il Report riflette la dinamica prevista e addirittura sorprende: i nuovi posti di lavoro, previsti in 205.000, sono stati 313.000 invece, con una revisione al rialzo dei dati del mese precedente. Le ore settimanali lavorate si sono attestate a 34,5, contro le 34,4 previste.
A seguito di questa pubblicazione, che ha superato le attese, i tassi a lungo termine sono risaliti e i mercati sono rimbalzati. A buon diritto: il report sta infatti a indicare uno scenario positivo basato sul rialzo dei tassi e sull’impatto della riforma fiscale, in cui le prospettive di un rafforzamento della crescita derivante da questa riforma portano le aziende ad assumere massicciamente, a migliorare la produttività del lavoro e a investire maggiormente. Ne potrebbero conseguire un aumento della crescita potenziale e un rialzo dei tassi nominali a lungo termine, alimentato da quello dei tassi reali e non dell’inflazione. Con 313.000 assunzioni in questa fase del ciclo – contro una media di 200.000 da fine 2010, e in parallelo un incremento mensile del salario orario limitato allo 0,1% – si sta profilando la perfetta configurazione per una risalita dei tassi che non andrebbe a sconvolgere i mercati azionari.
Qualche sfumatura è d’obbligo però. A giustificare la bassa inflazione salariale negli Stati Uniti nel 2017 troviamo le assunzioni, negli ultimi trimestri, di disoccupati da tempo assenti dal mercato del lavoro, disposti ad accettare condizioni salariali modeste. Ne deriva una bassa crescita del salario orario medio mentre quello mediano aumenta coerentemente con il mercato del lavoro. I dati di febbraio del Bureau of Labour Statistics potrebbero essere un concentrato di due fatti salienti: un’elevata creazione di posti di lavoro, superiore del 50% circa alla media degli ultimi otto anni, e un tasso di partecipazione passato dal 62,7 al 63%, che segna il maggior aumento mensile registrato dal mese di aprile del 2010. In altri termini, siamo di fronte ad assunzioni massicce di una popolazione da tempo esclusa dal mercato del lavoro che non dispone sicuramente delle stesse leve negoziali degli occupati.
Questa precisazione è importante perché non è escluso che si possa assistere, una volta digerita la fase di assunzioni in massa, a un aumento dei dati relativi all’inflazione salariale che potrebbero essere fonte di nuovo stress sui mercati.