Scambio (commerciale) di colpi

a cura di Neuberger Bergman

Quando le due principali economie mondiali iniziano un braccio di ferro, ci sarebbe da stupirsi se i mercati non ne risentissero.

La breve settimana che ci lasciamo alle spalle è stata caratterizzata da un volatile consolidamento, dopo le perdite subite nelle cinque sessioni precedenti dai mercati azionari, le più consistenti dall’inverno 2016. Nella settimana chiusa il 23 marzo, l’S&P 500 ha rasentato un scivolone del 6% mentre due indici trainati dalle esportazioni, vale a dire il Topix (Giappone) e il DAX (Germania), hanno perso rispettivamente il 6 e il 4%.

Il rumore aumenta e sono sempre di più quelli che lo sentono

Come ha fatto notare Erik Knutzen nelle Prospettive della settimana scorsa, di recente è accaduto di tutto e di più. Lo scoppio dello scandalo su Facebook per la mancata protezione dei dati personali ha spinto gli investitori a vendere i titoli delle grandi società tecnologiche. Il G20 si è concluso senza saper deliberare, in difesa del commercio globale, nulla di meglio di un “riconoscimento della necessità di proseguire il dialogo e le azioni in corso”. In Cina, si sono conclusi i lavori dell’Assemblea nazionale del popolo. Il nuovo presidente della Fed si è presentato alla stampa. I più recenti flash report dell’indice PMI si sono rivelati deludenti. E giovedì Donald Trump ha dato il la alla settimana, annunciando un piano di dazi doganali sulle importazioni cinesi per 60 miliardi di dollari.

Quando tutto questo accadeva, mi trovavo proprio in Cina a fare un sopralluogo dei nostri uffici in quel paese. Il mio collega Bin Yu, Head of China Equities, si è mostrato ottimista, facendo notare che dal 2012 le esportazioni incidono in modo molto modesto sul PIL cinese. L’anno scorso, per esempio, hanno contribuito per un misero 0,6%. Secondo i dati forniti dalla China International Capital Corporation (CICC), il fatturato delle società cinesi esposto direttamente agli Stati Uniti è pari ad appena il 5%. Secondo Yu, se si escludono ambiti specifici, come la catena logistica di Apple, le azioni cinesi difficilmente subiranno un impatto apprezzabile. Vale la pena notare che di recente le flessioni dello Shanghai Composite Index sono state inferiori a quelle registrate dai mercati azionati statunitensi, europei e giapponesi.

È anche possibile che il confronto in atto non sia altro che una versione più chiassosa e pubblica del consueto “do ut des” che da sempre caratterizza i rapporti economici tra Cina e Stati Uniti. Due importanti decision-maker dell’economia cinese, il vice premier Liu He (che ha studiato ad Harvard) e il vicepresidente Wang Qishan, sembrano affrontare la situazione con spirito pragmatico e globale. Entrambe queste figure sono ben note in Occidente e vantano una considerevole esperienza sulla ribalta mondiale.

Li Keqiang, il premier in carica, aveva in qualche modo anticipato l’annuncio di Trump quando durante l’Assemblea nazionale del popolo aveva dichiarato che “in una guerra commerciale non ci sono vincitori”. La Banca Popolare Cinese ha inoltre annunciato un’accelerazione delle riforme del sistema finanziario e sul fronte delle liberalizzazioni. Verso la metà della settimana scorsa, i funzionari statunitensi hanno moderato i toni della guerra commerciale e iniziato a lavorare in direzione di un accordo per evitare l’imposizione di dazi. Sulla scia della copertura mediatica e dei discorsi sulle guerre commerciali, gli Stati Uniti e la Corea del Sud hanno di fatto sancito una revisione del proprio accordo bilaterale in materia di scambi.

Un tema prevalente sui mercati

Anche se tutto andrà come previsto, difficilmente le tensioni commerciali si allenteranno, nel breve termine. Il pragmatismo della Cina non è affatto scontato. Inoltre, tra Stati Uniti e Messico sono in corso negoziati per apportare modifiche al NAFTA. A rendere le cose ancor più complicate è l’imminenza delle elezioni presidenziali in Messico, in programma a luglio. Il candidato al momento più popolare, con il 38% dei consensi secondo gli ultimi sondaggi e un distacco di otto punti percentuali sugli inseguitori, è Andrés Manuel López Obrador. Obrador è molto più scettico nei confronti del NAFTA rispetto al presidente in carica, Enrique Peña Nieto, e ha minacciato di “rimettere in riga” Donald Trump, con lo slogan “Prima i messicani”. L’apparente incertezza di una considerevole fetta dell’elettorato costituisce un grande punto interrogativo a sud del Rio Grande.

È probabile che nel futuro immediato l’alta marea del nazionalismo economico costituirà un tema prevalente nei mercati. Mentre in pubblico volano le scintille, dietro le quinte non mancano gli spazi di manovra per il pragmatismo che, con ogni probabilità, prevarrà. Ma non dimentichiamo che quando volano le scintille, a volte ci si scotta.

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