I mercati globali smettono di seguire il copione

A cura di Jacob de Tusch-Lec, gestore del Fondo Artemis Global Equity Income
Erano anni che non si vedeva un mercato così confuso e imprevedibile. Si sta riscrivendo precipitosamente il “copione” adottato nel lungo periodo di tassi di interesse prossimi allo zero e di quantitative easing. Gli investitori hanno usato per molto tempo alcune regole empiriche abbastanza semplici che permettevano loro di rispondere a determinati cambiamenti dell’economia o della politica monetaria.
Ora quel copione è stato messo da parte. Data la complessità delle strutture alla base del sistema finanziario, non c’è da sorprendersi se la fine di un decennio di politica monetaria non convenzionale comporta effetti complessi e imprevedibili. Gli investitori scrutano diversi indicatori per capire se quelle strutture funzionano ancora. La Federal Reserve negli Stati Uniti sta ridimensionando il suo stato patrimoniale e la crescita della massa monetaria (“M2”) sta invertendo la rotta a livello globale. Intanto, il consistente incremento della differenza fra tassi di interesse sui prestiti non garantiti e gli swap sui tassi a brevissima scadenza (il differenziale Libor-OIS è ai massimi livelli dal 2008) ha impaurito il mercato, visto che tale divaricamento significa la presenza di tensioni da qualche parte nel sistema.
Il tutto in un’interazione con un contesto politico caratterizzato da eventi improvvisi e inattesi – le guerre commerciali che si profilano all’orizzonte, le bordate di Trump contro Amazon o le crescenti tensioni con la Russia – che intensifica l’incertezza.
Per quanto riguarda i fondamentali, l’economia globale è ancora in crescita, anche se non così rapidamente come prima. L’ultima indagine ISM ha rilevato che il settore manifatturiero USA è cresciuto a marzo – ma a un ritmo un po’ più lento rispetto a febbraio, contribuendo ad acuire la preoccupazione, di cui si è già detto in precedenza, che “meglio di così non può andare” per l’economia globale. Siamo entrati un una fase di (leggera) stagnazione e il dibattito verte su un eventuale ripresa dell’economia alla luce delle guerre commerciali e dell’inasprimento monetario.
Gli utili societari, dal canto loro, non hanno risentito minimamente della situazione. Ad ogni modo a muovere il mercato non sono più l’economia o gli utili. Infatti, se si pensa in termini del metro di valutazione più diffuso del mercato, il rapporto p/u, gli utili (la “u”) non sono la principale preoccupazione degli investitori (sebbene il mercato non esiti a penalizzare una società che produce utili al di sotto delle aspettative). Infatti, man mano che è rimossa liquidità dal mercato, ci si preoccupa soprattutto dei prezzi che si pagano per quegli utili e, agli occhi di molti, un’inflazione più alta e una crescita più lenta devono significare multipli p/u più bassi.
Operazioni affollate. Con il mercato che si preoccupa dei multipli e di tassi di interesse più elevati, si registra un’uscita dalle posizioni “affollate”. Ciononostante, sebbene avessimo sempre saputo che sarebbe finita così (e abbiamo espresso esplicitamente il desiderio di evitare operazioni affollate), non si può mai essere certi su quali siano le aree affollate fino a dopo l’evento. Che le iconiche azioni FANG (Facebook, Amazon, Netflix, Google) fossero vulnerabili ad un cambiamento di regime era ovvio – era un principio comunemente accettato che le posizioni in questi titoli dovessero essere sovrappeso. Meno ovvio era il fatto che anche le azioni tecnologiche quotate a valutazioni molto più basse – quelle che potrebbero essere considerate di “valore” ciclico anziché di “crescita” secolare – sarebbero state penalizzate insieme alle FANG.
Era prevedibile anche che le società (anche quelle in tradizionali settori difensivi) che facevano sempre più ricorso al debito sarebbero state penalizzate. Dopo anni di sostanziale indifferenza alla costante crescita del debito delle società, il mercato si è finalmente reso conto the i tassi di interesse reali saliranno. Rispetto a molti dei nostri colleghi, abbiamo posizioni ridotte nei classici settori generatori di reddito quali sanità, immobiliare, servizi di pubblica utilità e beni di consumo di base. Avevamo previsto che le azioni in queste aree, caratterizzate dalla forte sensibilità all’andamento dei tassi di interesse, avrebbero cominciato a perdere parte della loro attrattiva con il rialzo dei rendimenti obbligazionari. Molte società in questi settori hanno passato l’ultimo decennio a indebitarsi per finanziare gli acquisti di azioni proprie e l’aumento dei dividendi. Via via che i tassi privi di rischio salgono, le società con elevato indebitamento a tasso variabile rendono meno della media di mercato. Pertanto, l’aver evitato queste azioni e le FANG ha dato un contributo positivo alla nostra performance.
Prospettive: tutto dipende dai dati.  Siano ben consapevoli che le condizioni hanno preso una piega più pessimistica. D’altro canto, sebbene non sia la nostra principale aspettativa, accettiamo la possibilità che la crescita possa raffreddarsi più rapidamente di quanto ci aspettassimo, specialmente se si impongono dazi sulle importazioni. Anche se questi dazi probabilmente avranno effetti in qualche modo trascurabili sulla crescita globale, è nei premi al rischio che si avvertono in modo particolare i costi delle guerre commerciali. Allo stesso tempo, però, non vediamo una recessione all’orizzonte e perciò non siamo (ancora) pronti ad abbandonare il nostro posizionamento pro-ciclico. Siamo coscienti del fatto che negli ultimi anni gli Stati Uniti abbiano regolarmente messo a segno una crescita deludente nel primo trimestre dell’anno per poi riprendersi in primavera e in estate. Il punto non è se questa sia un’aberrazione statistica, visto che i mercati reagiscono a tale andamento. Il nostro non è un rifiuto a priori delle azioni cicliche o di valore. Anzi, potremmo anche ritornare a rimpolpare queste aree, ma tutto dipende dai dati – e dalle notizie sugli utili – che emergeranno nelle prossime settimane. La forma del nostro portafoglio – analogamente alle decisioni della Federal Reserve – dipende dai dati.

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