Decennale americano oltre il 3%, le ragioni di breve e lungo termine

a cura di Olivier De Berranger, Chief Investment Officer di La Financière de l’Echiquier
Continua ad aumentare il rendimento dei tassi americani con il decennale che ha superato, la scorsa settimana, la soglia del 3,10%. Non succedeva dal 2011. Le giustificazioni vanno ricercate sia nel lungo che nel breve termine.
I fattori di lungo termine sono noti: grazie al buono stato di salute dell’economia americana l’inflazione ritrova un livello giudicato soddisfacente, attorno al 2%, e anche duraturo visto che la disoccupazione americana è ai minimi. La FED, di conseguenza, inasprisce i tassi a breve e riduce il suo bilancio. I tassi salgono: «va tutto bene».
La ragione di breve termine è individuabile nell’aumento del prezzo del petrolio a seguito del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Vienna sul nucleare iraniano. Il prezzo al barile s’impenna dato che sarà più difficile d’ora in poi sfruttare il petrolio iraniano. Il Brent si è di conseguenza attestato ai massimi degli ultimi quattro anni, a 79 dollari. Su questo versante «le cose vanno male». A dir il vero, l’inizio di questa evoluzione del petrolio risale a una data ben anteriore. Dopo essere sceso a 31 dollari nel gennaio del 2016 il prezzo del barile non ha smesso di risalire e non è un caso se i tassi americani hanno seguito la stessa traiettoria. Hanno toccato un punto minimo più o meno nello stesso momento, nel luglio 2016, con il decennale a 1,36%.
I tassi e il petrolio hanno subito la stessa impennata dato che la risalita del prezzo del greggio è di per sé un fattore di inflazione e quindi di rialzo dei tassi a lungo termine. Se il petrolio dovesse continuare a salire sotto la spinta – tra l’altro – di una forte crescita mondiale, potremmo assistere nel 2018 a una riedizione del 2007: il petrolio sale, l’inflazione pure e quindi i tassi… C’è di che preoccuparsi? La notizia è positiva: questi tassi dimostrano il buono stato di salute dell’economia americana e contribuiscono a normalizzare una situazione in cui erano anormalmente bassi.
 
Il trend porta però in sé i fermenti di un rallentamento futuro: riduce l’attrattiva delle azioni rispetto ai tassi americani e aumenta il costo dell’indebitamento, rallentando quindi gli investimenti e indebolendo le entità maggiormente indebitate (Stati, aziende, famiglie…). Questo stesso trend ha portato di recente un rialzo del dollaro che si è fortemente ripreso ad aprile, da cui consegue un altro rincaro del prezzo del petrolio per gli importatori. Infine, rende fragili i paesi emergenti, tra l’altro, che rappresentano buona parte della crescita mondiale dato che il loro debito attrae meno gli investitori e il loro finanziamento in dollari si rivela più costoso. Ne ha appena fatto le spese l’Argentina, costretta a chiedere aiuto al FMI per poter far fronte al deterioramento del suo guado finanziario.

Ogni evoluzione genera i fermenti della propria fine, sui mercati e in generale. Il livello dei tassi americani si inquadra in questa logica dimostrando che il ciclo sta diventato molto maturo negli Stati Uniti. Per fortuna questo non accade per ora in Europa o negli emergenti, lasciando un bel margine di crescita per il ciclo mondiale. I tassi possono quindi continuare a salire, non rovineranno la primavera.

Se l’assenza di brutte sorprese è sempre una buona cosa per i mercati, pensiamo tuttavia che un aumento più consistente dei salari si materializzerà nelle statistiche ufficiali, in particolare il report mensile sull’occupazione americana, che è sempre seguito con grande attenzione dagli investitori. Non vi sono dubbi che lo sarà ancor di più nei prossimi mesi.

 

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