Curva dei rendimenti Usa: logica invertita?

A cura di Tristan Hanson, M&G
I funzionari della Fed sono stati particolarmente loquaci sull’inclinazione della curva dei rendimenti questa settimana (soprattutto qui e qui), manifestando il timore di una possibile inversione della curva (fenomeno che si verifica quando i rendimenti sulle obbligazioni a breve scadenza salgono oltre il livello di quelli offerti dai titoli a più lungo termine).
Questa ossessione per la curva dei rendimenti è un fatto curioso. Tanto per cominciare, sembra destinata a diventare un esempio da manuale della legge di Goodhart, secondo la quale quando un parametro diventa un obiettivo, perde tutta la sua utilità. Succederà anche alla curva dei rendimenti?
In secondo luogo, come abbiamo già sostenuto, non vediamo niente di particolarmente insolito nella curva statunitense: in un ambiente in cui le aspettative di inflazione sono relativamente stabili, se il tasso sui Fed fund aumenta è perfettamente normale che la curva si appiattisca.
È dimostrato che una curva invertita rappresenta un fattore predittivo di recessione, e il timore della Fed al riguardo è giustificato, ma non è questo il segnale lanciato attualmente dal mercato obbligazionario. La curva dei rendimenti è più piatta, ma orientata verso l’alto.

La minore inclinazione è dovuta alle aspettative del mercato riguardo all’inflazione a lungo termine, mentre i tassi d’interesse reali sono ben ancorati. Quasi tutti gli osservatori della Fed, almeno per ora, ritengono che l’economia statunitense non richieda un tasso sui fondi federali molto al di sopra del 3,5%, nel futuro prossimo. Ciò spiega il motivo per cui i rendimenti sul segmento lungo della curva al momento restano al di sotto di questo livello. Fintanto che regge questa convinzione e la Fed aumenta i tassi verso questa soglia, la curva continuerà ad appiattirsi. Certo, le convinzioni possono cambiare.
Non sono quindi necessari commenti frequenti da parte degli esponenti della Fed. L’ironia è che un aumento dei rendimenti a lungo termine, a parità di altri fattori, equivale a una contrazione delle condizioni finanziarie (tassi più alti sui mutui, ecc.) eppure, secondo vari banchieri centrali, giustificherebbe un atteggiamento più restrittivo concretizzato in un tasso sui Fed fund più alto. La logica suggerisce il contrario, se i rendimenti obbligazionari calano.
Ciò che si può dedurre dai commenti recenti è che la Federal Reserve non vede una vera minaccia di aumento dell’inflazione e, di conseguenza, non ha alcuna fretta di accelerare il ritmo graduale dei rialzi dei tassi d’interesse. Sembra ragionevole e i prezzi di mercato al momento riflettono incrementi significativi dei tassi nei prossimi due anni.

Lo vediamo riflesso nel livello più alto del rendimento sui Treasury a due anni (2,55%) rispetto al tasso attuale sui fondi federali (1,75%). Secondo i verbali della Fed, questo spread è un indicatore della curva dei rendimenti citato da Bernanke prima della crisi del 2008 (quando la curva era invertita, come si vede nel grafico 2).
Sappiamo che le aspettative di mercato oscilleranno. La settimana scorsa, su Bond Vigilantes Wolfgang ha esaminato il modo in cui il rialzo dei rendimenti sui titoli a due anni ha migliorato il profilo di rischio/remunerazione di questi strumenti rispetto ai titoli analoghi con scadenze più lunghe. Resta da vedere se basterà a impedire un ulteriore appiattimento, ma intanto mette in luce l’importanza per la Fed di non attribuire a queste evoluzioni della curva implicazioni eccessivamente complesse. Come per i commenti sui canali sportivi in TV, a volte parlare meno è meglio.

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