Lo Stivale tira un calcio ai mercati

a cura di Joseph V. Amato, President e Chief Investment Officer – Equities Neuberger Berman

Martedì, gli sviluppi politici italiani sembravano sul punto di scatenare l’ultima grande correzione dei mercati. Mercoledì mattina, gli investitori pensavano già ad altro, persuasi che non ci fosse più nulla da vedere. Il tira e molla che ha caratterizzato la formazione del nuovo governo italiano ha generato oscillazioni di mercato notevoli. I titoli di Stato a due anni del Bel Paese hanno visto i rendimenti balzare in avanti di oltre 180 punti, come un classico “evento di coda”. Eppure le ripercussioni a livello sistemico sono state modeste.

L’episodio, ad ogni modo, ha riportato alla ribalta il fatto che l’eurozona è affetta da impedimenti strutturali in grado di costituire rischi sistemici. Rischi che politici e investitori hanno cercato di ignorare da quando sei anni fa Mario Draghi pronunciò il suo impegno a fare “tutto quanto sarà necessario”.

L’Italia è un microcosmo

Come il mio collega Ugo Lancioni ha fatto notare la settimana scorsa, solo poche settimane fa i rendimenti dei titoli di Stato italiani a due anni erano in territorio negativo. Martedì scorso, i Bund tedeschi sono stati oggetto di una modesta fuga al “bene rifugio”, mentre i rendimenti dei Treasury USA a 10 anni sono scesi di 15 punti base. In Spagna (un paese alle prese con i suoi problemi politici) e in Portogallo i rendimenti hanno registrato un’impennata. Gli spread si sono allargati e i titoli azionari delle banche hanno sofferto un ribasso a livello globale. Nel complesso, però, il contagio è risultato trascurabile, se si considera l’ondata di vendite senza precedenti che ha colpito i titoli di Stato italiani a due anni.

È degno di nota che nel momento in cui Lega e Movimento Cinque Stelle hanno lasciato intendere di essere disposti a proporre un ministro delle finanze meno euroscettico, anziché andare di nuovo alle urne, la notizia ha immediatamente generato un rialzo degli asset rischio. Un simile rialzo è forse giustificato, visto che nella serata di giovedì l’Italia ha finalmente avuto un governo (anche se nel gabinetto è comunque presente lo stesso personaggio euroscettico come ministro agli affari europei).

La verità è che le reazioni dei mercati ignorano le difficoltà dell’Italia che costituiscono un microcosmo delle difficoltà dell’eurozona nel suo complesso. L’Italia è un paese ricco con un settore delle esportazioni in forte espansione, ma la sua ricchezza e le realtà che creano tale ricchezza sono concentrate al Nord, il cui senso di solidarietà nei confronti del Meridione non è dei più caldi. Al Sud, una popolazione sempre più vecchia, povera e sottoccupata ha dovuto affrontare una gravosa crisi immigratoria, potendo contare solo su una debole struttura pubblica come unica risorsa.

L’adesione all’euro ha tolto ai paesi colpiti da un rallentamento della crescita (come l’Italia) il tradizionale pulsante del “reset” economico: la svalutazione della moneta. Ma i ricchi paesi esportatori dell’eurozona settentrionale ostacolano la solidarietà fiscale necessaria per aiutare l’Italia a ritornare alla crescita in assenza dell’opzione della svalutazione. E le istituzioni dell’eurozona sono troppo deboli per forzare una soluzione del problema. Il progetto di unione bancaria è stato posposto sine die e le ridotte dimensioni dell’European Investment Stabilization Function (30 miliardi di euro) messe a nudo la settimana scorsa indicano chiaramente che l’eurozona ha ancora molta strada da fare per realizzare una qualche forma di condivisione del rischio fiscale.

Incentivi

Parliamoci chiaro: dal 2012 in poi sia l’Europa che l’Italia hanno compiuto passi avanti. Spagna, Irlanda e Portogallo sono riusciti a tirarsi di nuovo in piedi e a ritornare alla crescita e alla stabilità. L’Italia, pur gravata da un debito pubblico pari al 130% del PIL, è tuttavia riuscita a piazzare 5,6 miliardi di euro in titoli di Stato anche nel mezzo della crisi della settimana scorsa. Secondo la BCE, alla fine del 3° trimestre 2017 oltre il 12% dei prestiti bancari del paese erano in sofferenza ma, dopo alcune cessioni record di asset, il dato è in miglioramento rispetto al 16,6% registrato un anno prima.

Tuttavia, buona parte dei miglioramenti e l’assenza di palesi rischi sistemici sono da ricondurre all’attuale contesto di crescita interna ed estera, come ha riconosciuto la BCE nella sua Financial Stability Review, pubblicata con cadenza biennale. La riforma strutturale dell’eurozona si è rivelata difficile persino negli ultimi sei anni di discreto bel tempo. Ma se in cielo dovessero ritornare nuvoloni economici pieni di pioggia, sarà molto più difficile sistemare il tetto o ignorarne i buchi.

Sono due le conclusioni che gli investitori possono trarre da questa vicenda. La prima è che il rischio sistemico intrinseco nell’inadeguatezza strutturale dell’eurozona può rimanere sopito a lungo, ma non deve essere ignorato. La seconda è che Draghi e la BCE avranno ottimi motivi per eccedere con la cautela, quando inizieranno a programmare un restringimento della politica monetaria.

Sotto molti aspetti, l’Italia rappresenta il massimo punto di stress per l’eurozona e per il suo futuro politico ed economico. Come questa difficile situazione di crescita lenta, divisione politica e forte indebitamento verrà risolta rappresenterà nel lungo termine la discriminante del successo dell’eurozona che, non dimentichiamolo, è l’economia più grande del mondo. Dobbiamo tutti prestare la massima attenzione.

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