Le politiche espansive spingono la crescita Usa

A cura di Darrell Spence e Jared Franz, economisti di Capital Group
 L’economia USA, dopo una maratona di espansione lunga nove anni, potrebbe aver trovato quest’anno nuove energie. Grazie ai tagli alle tasse di fine 2017 e all’aumento della spesa federale approvata a febbraio, l’economia del Paese sembra aver trovato nuove forze proprio quando la lunga fase di ripresa seguita alla crisi finanziaria globale sembrava stesse per finire la benzina.
Si prevede che queste misure costituiranno uno stimolo fiscale pari a circa 285 miliardi di dollari quest’anno per l’economia statunitense. La riforma fiscale dovrebbe spingere la crescita economica degli Stati Uniti nel 2018 e nel 2019 grazie all’incremento dei consumi da parte di imprese e privati. Inoltre, la combinazione di maggiori utili societari, incentivi ad investire in attrezzature aziendali e il contesto globale favorevole dovrebbe stimolare ulteriormente l’attività economica. Prevediamo una crescita del PIL di circa il 3% per quest’anno.
Grazie ai tagli alle tasse e al Jobs Act del 2017 le spese in conto capitale delle società dello S&P 500 hanno raggiunto i 167 miliardi di dollari nel primo trimestre, il ritmo più veloce in sette anni.
Spiccano le società del settore tecnologico, con Google in testa alla classifica – 7,3 miliardi di dollari nel primo trimestre, mentre nello stesso periodo un anno fa il dato era pari a 2,5 miliardi di dollari. Tra le prime dieci anche Apple e Microsoft sono risultati tra i primi 10 della lista.
La riduzione delle tasse e l’aumento della spesa sono punti di svolta per l’economia. L’iniezione di liquidità che deriva sia dai tagli alle tasse che dalla nuova legge di bilancio sta avendo un impatto significativo che probabilmente continuerà fino al 2019.
In generale, il mercato del lavoro è solido, le società stanno spendendo di più, la produzione industriale è sana, i salari sono in aumento e le vendite al dettaglio crescono. Sono tutti segnali di un’economia in crescita, sia per quanto riguarda l’anno in corso che per quelli a venire.
La riduzione delle tasse sta spingendo verso l’alto gli utili delle società dello S&P 500. Nel complesso, gli utili del primo trimestre al netto delle imposte sono cresciuti del 25,3% rispetto allo stesso periodo nel 2017, secondo i dati di Thomson Reuters. È stato quindi il settimo trimestre consecutivo di crescita degli utili per azione e il dato più alto degli ultimi sette anni.
Lo scenario che si sta sviluppando è molto positivo per gli utili. Sulla semplice base di un ciclo più forte dell’attività economica e l’aumento del potere delle imprese nel determinare i prezzi, non crediamo che sia troppo ottimistico ipotizzare una crescita degli utili intorno al 20% quest’anno, che sarebbe ovviamente molto positivo per il mercato azionario.
Nella seconda metà del 2018 i mercati dovrebbero cercare di capire se sia opportuno o meno essere relativamente ottimisti sull’inflazione, visto che il dato core a maggio era del 2,2% e, includendo cibo ed energia, si arriva al 2,8%.
 
Il tasso di utilizzo delle risorse, che unisce misure di attività manifatturiera e di lavoro, è un indicatore molto affidabile per misurare il livello imminente di inflazione. Più alto è il tasso di utilizzo, minore è il margine dell’economia e più forte è il potenziale della pressione inflazionistica.
Diversi dati indicano che l’inflazione potrebbe aumentare e potrebbe influenzare la velocità con cui la Fed interverrà sui tassi di interesse. Sembra logico che qualsiasi miglioramento nella crescita e nell’inflazione potrebbe indurre la Fed ad accelerare il passo dei rialzi dei tassi previsti per i prossimi anni. Il mercato potrebbe dover rivedere le proprie previsioni relative alla politica della Fed.
All’inizio dell’anno, la minaccia di incremento dell’inflazione ha alimentato le paure di una crescita rapida dei tassi di interesse, contribuendo alla prima correzione di mercato dal 2016. Ma l’inflazione è stata relativamente contenuta per anni, perciò un’accelerazione moderata dovrebbe essere ben accetta. Gli attuali dati non sono da considerarsi una minaccia per l’azionario.
Infatti, dal 1946, i rendimenti dell’azionario statunitense sono stati superiori al 10% negli anni in cui l’inflazione si è mantenuta tra il 2% e il 3%. Lo S&P 500 ha registrato performance positive anche nella maggior parte degli anni in cui l’inflazione ha raggiunto il 3% o 4%. Naturalmente, l’inflazione è solo uno dei tanti fattori che influenzano la performance, ma gli investitori dovrebbero trarre conforto dal fatto che, da solo, un moderato aumento dell’inflazione non è in genere negativo per le azioni.
Dalla Seconda guerra mondiale, le espansioni dell’economia statunitense hanno avuto una durata media di 60 mesi. È innegabile che questa sia una fase straordinaria, raggiunti ormai i 108 mesi di espansione –  che potrebbero continuare, specialmente considerato lo stimolo derivante da riduzioni delle tasse e dall’aumento della spesa fiscale.
Non sembra esserci alcun problema di natura sistematica o squilibri tali, per dimensioni o natura, da spingere l’economia americana in una recessione nei prossimi 12-18 mesi.

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