La Turchia eviterà il surriscaldamento?

Di  R. Drijkoningen, Portfolio Manager e K. Nazli, Economist di Neuberger Berman

Due settimane fa i cittadini turchi si sono recati alle urne e hanno rieletto Recep Tayyip Erdoğan come Presidente per altri cinque anni, stavolta nell’ambito del nuovo quadro istituzionale di presidenza esecutiva che sostituisce il precedente sistema parlamentare. La coalizione guidata dal Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) di Erdoğan si è a sua volta assicurata la maggioranza in parlamento.

La volontà del capo dello Stato di adottare politiche monetarie e fiscali responsabili sarà quindi determinante per la crescita economica del Paese. I timori di surriscaldamento dell’economia, nel quadro delle vendite generalizzate che hanno colpito i mercati emergenti, hanno spinto al ribasso la lira turca, che nel primo semestre si è deprezzata del 22% contro il dollaro statunitense. Oltre al nuovo e sempre più potente Erdoğan, sono però in gioco anche altri fattori.

Inflazione e tassi d’interesse

Già l’anno scorso, durante la fase di forte espansione dei Paesi emergenti, la crescita reale del 7% registrata dalla Turchia si è distinta in positivo. La crescita del 2017 è proseguita anche quest’anno (+7,4% nel primo trimestre), essenzialmente grazie alle politiche monetarie e fiscali accomodanti che hanno sostenuto il credito, i consumi e il settore edilizio e immobiliare.

Questo andamento è in linea con i mega-progetti promossi da Erdoğan in vista del centenario della Repubblica, che ricorre nel 2023, ma è in contrasto con il copione seguito solitamente dai Paesi dell’Europa centrale e orientale, che in genere puntano sulle esportazioni a valore aggiunto, e ha generato grandi squilibri macroeconomici nel Paese. Il deficit delle partite correnti si è ampliato ulteriormente, in parte a causa dell’aumento dei prezzi del petrolio (dato che la Turchia è un forte importatore di greggio su base netta) e in parte perché gli investimenti diretti esteri rimangono bassi e coprono appena il 15-20% del disavanzo rispetto a un livello medio dell’80% circa degli altri Paesi dell’Europa centrale e orientale.

Questi squilibri hanno creato tensioni nel settore degli investimenti, alimentando il ribasso della lira e costringendo la banca centrale ad alzare i tassi di 5 punti percentuali nell’intento di contenere l’inflazione. L’obiettivo d’inflazione ufficiale è pari al 5% ma, la scorsa settimana l’indice dei prezzi al consumo di giugno ha toccato il 15,4%, il livello più alto dal varo della nuova metodologia di calcolo dell’inflazione nel 2004, e si prevede che possa arrivare fino al 17%. L’indice dei prezzi alla produzione turco si attesta invece al 24%.

In breve, l’economia della Turchia dovrà attraversare un processo di significativo rallentamento ed è probabile che la crescita della domanda interna si dimezzi rispetto all’anno scorso. Affinché ciò sia possibile, la banca centrale dovrà disporre di un margine di manovra più ampio di quello su cui ha potuto contare di recente. Prima degli ultimi rialzi dei tassi, la sua capacità di reazione è stata infatti limitata dalle continue ingerenze politiche: Erdoğan nutre la convinzione non ortodossa secondo cui gli aumenti dei tassi d’interesse facciano salire l’inflazione, anziché il contrario, e la scorsa settimana il Primo ministro uscente Binali Yıldırım ha ribadito che le principali priorità del governo saranno: “abbassare i tassi d’interesse e l’inflazione”.

Posizione solida

Nonostante tutte le sfide che deve affrontare, la Turchia sembra partire da basi solide. Il rapporto debito pubblico/PIL è di solo il 25% e l’anno scorso il rapporto deficit/PIL si attestava ad appena il 2,1%. Non bisogna trascurare il rischio concreto di un aumento dei crediti deteriorati, alla luce della debolezza del cambio e del rallentamento in vista, ma nel complesso il settore bancario turco appare sano e liquido. L’economia della Turchia spicca tra i Paesi con squilibri esterni esposti a un incremento dei costi di finanziamento globali, ma la disciplina di mercato così come le ingenti passività in valuta estera per le società non finanziarie dovrebbero impedire l’adozione di politiche monetarie e fiscali eccessivamente espansive. La Turchia può inoltre contare su varie leve strutturali, come il robusto profilo demografico e il settore privato vibrante e competitivo, che assicura collegamenti essenziali lungo la filiera europea.

Manteniamo un orientamento positivo nei confronti delle obbligazioni turche sia in valuta forte che in valuta locale. A nostro parere, nel segmento in valuta forte, gli spread delle emissioni turche scontano i rischi politici e geopolitici di breve termine. Le obbligazioni quotano in linea con i titoli con rating B+, anche se l’attuale merito di credito della Turchia è BB; livello che a nostro avviso non riflette appieno l’attuale quadro dei rischi.

Nel segmento in valuta locale, gli attuali rendimenti reali nella parte centrale della curva rispecchiano a nostro avviso l’incertezza relativa all’andamento dell’inflazione nel breve periodo. Ci aspettiamo inoltre che la banca centrale continui ad attuare una politica monetaria restrittiva, per riacquistare una certa credibilità. Il recente rialzo dei tassi dovrebbe innescare un notevole rallentamento nel secondo semestre. In assenza di nuovi stimoli fiscali da parte del governo, tenendo conto che tradizionalmente l’esecutivo tende ad attuare politiche fiscali responsabili e che deve riequilibrare l’allentamento fiscale operato prima delle elezioni, riteniamo che le obbligazioni in valuta locale offrano un potenziale di rendimento interessante. Rimaniamo invece cauti nei confronti della lira turca, poiché potrebbe rimanere vulnerabile nella fase di nomina dei nuovi Ministri e in caso di potenziali passi falsi del Governo sul fronte della comunicazione.

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