I fattori di rischio, dalle guerre commerciali all’Italia

A cura di Stuart Canning, M&G Investments

Il 6 luglio gli Stati Uniti hanno imposto dazi su beni importati dalla Cina per un valore di 34 miliardi di dollari, compiendo quello che molti considerano il primo atto ufficiale della “guerra commerciale” di Donald Trump.  Nel corso del secondo trimestre, la guerra commerciale ha dominato i commenti di mercato, distogliendo l’attenzione dai temi in primo piano all’inizio del periodo.
Curiosamente, molte delle storie assurte agli onori della cronaca ultimamente hanno più tratti in comune di quanto possa sembrare.
La politica italiana, i timori per i mercati emergenti e le guerre commerciali sono tutte situazioni in cui gli eventi effettivi sono relativamente favorevoli, ma i prezzi di mercato riflettono la paura che quegli sviluppi siano solo il primo passo verso uno scenario potenzialmente molto negativo.
Abbiamo già parlato della politica italiana e dei mercati emergenti. In Italia, il veto sul nome proposto per il ministero delle Finanze dovrebbe avere un impatto nullo o trascurabile sull’economia, ma gli investitori temono che possa costituire il primo passo sulla via che conduce allo scontro con la BCE, al default o addirittura all’uscita dall’UE.
Analogamente, i tassi USA in rialzo e il dollaro più forte producono indubbiamente effetti diretti sulle economie dei mercati emergenti, ma la vera paura nasce dall’ipotesi che tali aumenti si traducano in una crisi conclamata della bilancia dei pagamenti.
Guerre commerciali
L’attenzione riservata oggi alle guerre commerciali è forse l’esempio più chiaro di questa dinamica. Al momento è opinione diffusa che le misure adottate finora da Stati Uniti, Cina e altri siano sostanzialmente trascurabili, non solo per il commercio mondiale nel suo complesso, ma anche per gli stessi USA e Cina.

Chiaramente prevedere il vero impatto dei dazi è molto difficile, soprattutto in un mondo di catene logistiche globali sempre più interconnesse, ma chi ci ha provato tendenzialmente ha calcolato un effetto sul PIL statunitense inferiore allo 0,5% e spesso anche molto più limitato (si veda, ad esempio, qui, qui, e qui).
In tutti i casi, i modelli impiegati rientrano nella categoria della pseudoscienza quantitativa di cui ha parlato Tristan di recente (si noti la falsa precisione nei tentativi di indicare gli effetti dei dazi con due cifre decimali!) Sarebbe quindi opportuno mantenere un sano scetticismo sulla loro validità, ma in effetti mostrano che a preoccupare gli investitori non sono tanto gli annunci fatti finora, quanto la paura di un’escalation di botte e risposte.
Negli ultimi tre mesi si è ripetuto lo schema di un’azione seguita da una rappresaglia e la Cina ha già annunciato che i suoi dazi in risposta a quelli di Trump sono in vigore dal 6 luglio.

Finora le reazioni del mercato a queste notizie sono state relativamente selettive. La debolezza in questa fase si è manifestata soprattutto in Cina e nei mercati correlati,

mentre l’azionario statunitense (sostenuto non poco dalla performance robusta dei maggiori titoli tecnologici) ha dimostrato una buona tenuta e lo stesso ha fatto l’Australia, che pur essendo spesso considerata altamente esposta alla crescita cinese, finora ha scampato i dazi USA sull’acciaio.
Si notano, però, segnali di preoccupazione più estesi. In concomitanza con i dati macroeconomici globali ancora deludenti in confronto alle aspettative, le paure di una guerra commerciale a quanto pare stanno incidendo sulla percezione delle prospettive di crescita mondiale. L’appiattimento della curva dei rendimenti statunitense è tornato al centro dell’attenzione, ma questa volta la situazione è diversa.
In contrasto con l’ambiente degli ultimi tre mesi, in cui la curva si è appiattita per effetto dei tassi a breve in rialzo a fronte di rendimenti stabili sul segmento lungo (il cosiddetto “bear flattener”), a giugno i movimenti sono derivati da flessioni più nette dei tassi sulle obbligazioni con scadenze più lontane (“bull flattener”).

Bisogna evitare di dare un’eccessiva importanza a questo fenomeno, ma potrebbe riflettere un maggiore pessimismo sulle prospettive di crescita mondiale. I dati avranno un ruolo cruciale, ma i tempi dell’appiattimento “bear” sembrano dare credibilità alla tesi secondo cui i timori di una guerra commerciale stanno esercitando un impatto.
Una riflessione su questi rischi: disciplina di vendita e investimento value
Gli ambienti di questo tipo, in cui situazioni in apparenza di scarso rilievo potrebbero rappresentare in realtà le prime avvisaglie di sviluppi più significativi, dimostrano ancora una volta quanto sia sbagliato considerare il rischio esclusivamente in termini di volatilità (Joe Wiggins ne parla citando il “rischio di coda” in un post recente sul dibattito che parte dalla domanda “la volatilità equivale al rischio?”).
Inoltre costituiscono una sfida per la psicologia umana. Molti investitori sostengono di evitare le previsioni concentrandosi solo sui “fatti”, ma si può sempre essere tentati di credere che i fatti di oggi abbiano messo in moto una concatenazione inarrestabile di eventi. In quanto esseri umani, abbiamo anche paura di sembrare ingenui e sprovveduti: quando il peggio accade davvero, nessuno vuole trovarsi ad ammettere che “i segnali che sarebbe potuto succedere c’erano tutti”.
È qui che la “disciplina di vendita” diventa estremamente importante. Non ha niente a che vedere con gli obiettivi di prezzo o gli “stop loss”, ma piuttosto con la flessibilità di riconoscere quando le cose sono cambiate, evitando di restare attaccati alle posizioni di investimento assunte in un contesto molto diverso.
Oggi si capisce il motivo di tanta apprensione da parte degli investitori: un singolo tema sta dominando l’attenzione, è facile delineare scenari negativi e un’intensificazione sembra inevitabile. Se quella intensificazione non ci sarà o, meglio ancora, se si verificano altri sviluppi positivi che oggi magari non possiamo neanche immaginare, la reazione del mercato vista finora probabilmente si rivelerà eccessiva, trasformandosi in un’opportunità. D’altra parte, se la situazione fondamentale dovesse effettivamente deteriorarsi, bisogna evitare ogni dogmatismo.
Da esseri umani soggetti al bias del senno di poi, siamo tentati di pensare che se qualcosa è successo è perché era da sempre destinato a succedere e quindi avremmo dovuto prevederlo. In realtà, dobbiamo farci una ragione del fatto che non possiamo sapere quale strada prenderà il futuro. Il successo degli investimenti spesso dipende soltanto da questa umiltà.

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