I “MAGA” possono soccorrere i “FAANG” in difficoltà?

A cura di Alessandro Balsotti, strategist e gestore, JCI FX Macro Fund

Ancora una volta è stata a seconda parte della sessione americana a guidare le danze (con l’Europa già chiusa e discreti guadagni che rischiano di rivelarsi bugiardi all’apertura della nuova settimana). E ancora una volta quando arrivano i ribassi sono le locomotive storiche degli ultimi trimestri a soffrire maggiormente: l’S&P 500 lascia sul campo un moderato 0.7% mentre Nasdaq (-1.5%) e Russell 2000 (-1.9%) accusano ferite più vistose. Le trimestrali continuano ad essere nel complesso più che buone (negli Stati Uniti, più zoppicanti invero in Europa) ma il mercato sembra, in questa fase, particolarmente sensibile alle sporadiche notizie negative che arrivano dai risultati aziendali, in particolare dai titoli tecnologici…

Ci aspetta intanto, prima della calma agostana (una tranquillità che non sempre si applica al mercato), una settimana intensa tra riunioni di banche centrali e dati macro.


MAGA vs FAANG. Non è del MAGA di Trump (ovvero dell’agenda ‘Make America Great Again’ così puntigliosamente sostenuta dal Presidente) a cui ci riferiamo ma a un nuovo acronimo che meglio raggruppa in quest’ultima fase i giganti della tecnologia, i pilastri più resistenti a cui il mercato si sta aggrappando.
MAGA=Microsoft-Amazon-Google- Apple. FAANG=Facebook-Apple-Amazon-Netflix-Google. Netflix è in effetti di una caratura dimensionale lontana dagli altri: i suoi 154 bio USD di capitalizzazione sono poco più della metà di quanto è aumentato il valore di Microsoft negli ultimi 12 mesi (280 bio). Sta poi anche accusando qualche colpo a vuoto (-16% dai massimi di giugno) anche se mette a segno un pur sempre incredibile +77% da inizio anno. Facebook, con i suoi 500+ bio di capitalizzazione appartiene alla lega dei grandi ma ha visto azzerati i suoi guadagni del 2018 in poco più di una sessione (120 bio di perdita di valore in un solo giorno è il nuovo record assoluto per un’azienda quotata).
Con MAGA si cerca di lasciare per strada i casi più deboli e di concentrarsi sui nomi più solidi o che, comunque, riescano a mantenere per ora invariato il ‘momento’ positivo, cooptando Microsoft, che nell’immaginario non è così new-new-new-economy come gli altri ma non è stato certo meno spumeggiante come titolo nel recente passato (oltre ad essere altrettanto gigantesco con i suoi 827 bio USD di market-cap vs Amazon 886, Google 866, Apple 939).
Una leadership sempre più ristretta non è garanzia di ribassi ma è indice di fragilità. Intanto venerdì sono arrivate nuove debacle relativamente ‘prestigiose’: Twitter ha perso 21%, il suo peggior ribasso di un giorno dal febbraio 2014; a Intel non è bastato battere le stime di utili e ricavi, una guidance negativa ha innescato un non insignificante -8.6%. In generale, dopo una poderosa settimana di trimestrali che ci ha portato a 2/3 del calendario (dopo un altro 21% in arrivo questa settimana, la stagione del reporting potrà dirsi praticamente conclusa, almeno per Wall Street), l’impressione è quella che il dazio da pagare per chi delude le attese, anche solo sulle prospettive future, sia sempre molto elevato (Facebook, Twitter e Intel), mentre i progressi di prezzo siano spesso poco appariscenti quando i risultati sono eccellenti (Amazon). Forse è azzardato generalizzare una tendenza che sembra essere emersa soprattutto nel settore tech. Che comunque, nel bene e nel male, è destinato a rimanere il settore guida per eccellenza di tutto il listino americano.

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