Italia: deficit e sostenibilità del debito, gli scenari

A cura di Marcela Meirelles, Managing Director Fixed Income, Tcw
L’Italia rimane sotto i riflettori per quattro eventi chiave: la nota di aggiornamento al Def presentata dal Governo, la presentazione del disegno di legge di bilancio in Parlamento a metà ottobre, gli annunci sul rating al debito italiano da parte di S&P e Moody’s nella seconda metà di ottobre e infine la revisione del bilancio 2019 da parte della Commissione Europea ai primi di novembre.
I vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno ribadito più volte l’importanza di mantenere le promesse elettorali, come la revisione della riforma delle pensioni e il reddito minimo universale, il congelamento dell’IVA e la riforma della tassazione personale e aziendale. L’implementazione immediata di tutte le misure avrebbe un costo pari a circa il 7% del Pil. L’aggiornamento del Def non include tutte le misure promesse in campagna elettorale, ma riteniamo improbabile che il Governo vi rinunci completamente.
Sostenibilità del debito dell’Italia: scenari e fattori chiave
Quanto margine ha l’Italia per aumentare la spesa senza compromettere la sostenibilità già precaria del debito? La risposta è: non molto. La crescita del Paese continua ad essere bassa, quindi è necessario uno sforzo sistematico per mantenere stabile il rapporto debito/Pil. Dal momento che l’Italia spende già il 3,5% del Pil per il pagamento degli interessi, per mantenere il deficit complessivo a livelli accettabili occorre un avanzo primario stabile pari almeno all’1,5% del Pil. Il grafico illustra le proiezioni sull’andamento del rapporto debito/Pil in base a diverse assunzioni sul deficit di bilancio e sullo spread corrispondente.
Rapporto percentuale debito/Pil dell’Italia con diversi livelli di deficit e spread

Gli investitori ora scrutineranno con attenzione l’aggiornamento del Def e i parametri sottostanti. Ad esempio, un ottimismo eccessivo nei confronti della crescita (e di conseguenza un’attesa sovrastimata dei ricavi) sarebbe controproducente. Le stime sul Pil 2018 e 2019 dovrebbero essere riviste al ribasso dello 0,2-0,3% (all’1-1,2% del Pil reale per il 2018/2019) per tenere conto della perdita di slancio dell’attività iniziata nel primo trimestre di quest’anno. Anche i costi di finanziamento più elevati dovrebbero essere presi in considerazione, soprattutto alla luce dei piani della Bce di terminare l’espansione del bilancio entro la fine dell’anno.
Un deficit al di sotto del 2% del Pil sarebbe stato molto apprezzato dal mercato, ma non avrebbe lasciato quasi nessun margine per l’ambizioso piano di stimoli promesso durante la campagna elettorale.
Non è comunque da escludersi una futura adozione graduale delle misure di stimolo, concentrata sulla riduzione della povertà e sulla creazione di posti di lavoro. È un approccio interessante, che sarebbe probabilmente sufficiente ad impedire che l’Italia perda lo status di investment grade nel prossimo anno e potrebbe persino essere positivo per la crescita.
Sono più preoccupanti invece la perdita di slancio nelle riforme economiche e lo smantellamento degli sforzi precedenti, come la riforma del mercato del lavoro e la riforma delle pensioni. Questo trend potrebbe avere un forte impatto sul giudizio delle agenzie di rating in merito all’appartenenza dell’Italia all’universo IG.
Fine del QE della BCE: conseguenze per l’Italia
Nel momento in cui interromperà l’espansione del bilancio a dicembre 2018, la Bce avrà comprato circa 366 miliardi di euro di Titoli di Stato italiani, pari al 17% del debito pubblico totale dell’Italia. Il reinvestimento in Titoli in scadenza sarà comunque considerevole. Dato il profilo di maturity e la ripartizione sui diversi Paesi del portafoglio della Bce, ci si aspetta un reinvestimento di 30 miliardi di euro in obbligazioni italiane.
Tuttavia, la fine degli acquisti netti di asset significa che il settore privato dovrà assorbire una porzione maggiore del fabbisogno di finanziamento lordo dell’Italia, al ritmo di 4,5 miliardi di euro in più al mese. È un ammontare gestibile, fintanto che il livello di indebitamento dell’Italia è considerato sostenibile.
L’allargamento del deficit del Target 2 in Italia: Da dove viene e cosa ci dice?
L’Italia ha un ampio deficit del Target 2 che è andato ancora più in rosso dopo il sell off di maggio 2018. Questo ha scatenato commenti sui segnali di warning provenienti dai saldi del Target 2.
Il sistema Target 2 elabora il regolamento dei flussi transfrontalieri della moneta unica europea. Un deflusso dal settore bancario italiano verso qualche altra parte dell’area dell’euro crea una voce negativa nel sistema Target 2 per la Banca d’Italia e una positiva per la Banca centrale del Paese beneficiario. Vi è una chiara tendenza divergente nei saldi di alcuni Paesi, come illustrato nel grafico seguente:

I saldi del Target 2 sono aumentati a seguito della crisi del debito sovrano europeo del 2011, che ha accelerato il processo di riduzione della leva finanziaria dell’attività bancaria che ha portato allo sbilanciamento dei precedenti flussi transfrontalieri.
Più recentemente, l’aumento del disavanzo di Target 2 della Banca d’Italia è stato collegato al programma di acquisto della BCE.
Il fatto che ci siano attualmente flussi netti in uscita dall’Italia verso un’altra parte della zona euro segnala in ogni caso che l’attrattiva degli investitori stranieri per l’esposizione al rischio Italia in generale rimane debole, se comparata ai livelli pre-2011. Infatti, quando gli investitori stranieri vendono Titoli di Stato italiani alle autorità monetarie, potrebbero utilizzare il ricavato per acquistare obbligazioni societarie italiane, o per fare un investimento azionario su un’attività locale.
Conclusioni: le preoccupazioni degli investitori
Ci sono diversi segnali della preoccupazione da parte degli investitori sulla sostenibilità del debito italiano, specialmente in un contesto nel quale la Bce sta riducendo gradualmente le misure di stimolo.
Non ci aspettiamo che l’Italia perda lo status di investment grade nel prossimo anno. Tuttavia, il segnale dato dalle ultime elezioni è chiaro e gli investitori non lo dimenticheranno facilmente: al Governo ora c’è una coalizione con un atteggiamento critico verso le riforme e l’Eurozona.
La Lega e il Movimento 5 Stelle condividono un approccio populista, ma hanno poco in comune per quanto riguarda le priorità politiche. È possibile che il mercato sia rassicurato dalla prospettiva che il disaccordo porterà all’inazione e quindi al mantenimento dello status quo dal punto di vista fiscale. Il rischio d’altra parte è che questa fragile alleanza possa sfaldarsi e riportare gli italiani alle elezioni, ritardando ulteriormente riforme economiche di cui c’è molto bisogno.

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