Lombard Odier, la strategia di investimento per il quarto trimestre

A cura di Samy Chaar, Chief Economist Lombard Odier
 

  • Il nostro scenario di base non prevede una grave recessione economica nel corso del prossimo anno, ma soltanto una decelerazione della crescita economica mondiale.
  • Forte slancio di crescita, costante sostegno fiscale, mercato del lavoro relativamente teso e aumento delle pressioni inflazionistiche sono tutti fattori che suggeriscono che la Fed darà attuazione al piano che prevede una politica monetaria più restrittiva.
  • Sebbene le controversie commerciali abbiano inciso sulla crescita dell’Europa quest’anno, gli indicatori nazionali rimangono molto solidi, suggerendo altresì che le previsioni a livello di inflazione (e BCE) potrebbero infine cambiare.
  • L’economia giapponese appare al momento solida e gli obiettivi di riforma rimanenti di Abe contribuiranno a rendere tali migliori dinamiche sostenibili nel tempo.
  • La fuga degli investitori dai mercati emergenti sta danneggiando i relativi mercati finanziari e valute, nonostante fondamentali sottostanti ancora sostanzialmente favorevoli.
  • Nell’universo dei cambi, vediamo il rialzo del CAD e del NOK e la stabilizzazione dello USD (prima della svalutazione a lungo termine) e il progressivo indebolimento del CHF, con il RUB e il MXN che continuano a essere le nostre valute emergenti favorite.
  • Le fasi del ciclo tardivo possono offrire robusti rendimenti, ma pongono nuove sfide e richiedono un’attenta gestione del rischio. Intendiamo rimanere flessibili, contenendo il rischio complessivo del portafoglio, pur mantenendo un’esposizione ciclica selettiva.

Alle soglie dell’ultimo trimestre del 2018, il quadro economico e finanziario rimane complessivamente positivo. L’aumento dell’occupazione supporta la domanda nazionale in tutte le regioni. Anche i volumi degli scambi continuano a registrare un ritmo dignitoso. Alcune nubi si stanno, tuttavia, addensando all’orizzonte, e costituiscono ostacoli per le prospettive cicliche del 2019. In primo luogo il ciclo dei tassi d’interesse USA che costituisce, in definitiva, l’unico ciclo monetario che conta considerata la natura dollaro centrica del sistema finanziario globale. Il forte slancio di crescita negli Stati Uniti, un mercato del lavoro fortemente teso e l’inflazione ora al livello target dovrebbero dissuadere la Federal Reserve (Fed) dall’idea di scostarsi dal previsto percorso di riduzione dei tassi, con un ulteriore rialzo previsto prima della fine di quest’anno e tre nel 2019) (vedi grafico I, pagina 04). La Fed continuerà inoltre a normalizzare (ossia, ridurre) il proprio bilancio, aumentando lo stress inflitto sugli attori economici più vulnerabili.
I paesi emergenti che presentano ampi disallineamenti valutari e le società con un elevato tasso di indebitamento risultano maggiormente a rischio, come già evidente da alcuni mesi. A quest’ultimo proposito occorre ricordare che le passività totali del settore corporate non finanziario hanno sfiorato un livello record a fine 2017 e attualmente superano i livelli massimi precedenti alle ultime due crisi economiche. L’altra principale fonte di preoccupazione è rappresentata dalle controversie commerciali tra Stati Uniti e Cina. Mentre si registrano progressi con altri partner commerciali degli Stati Uniti, come Messico, Europa e Giappone, si è inasprito lo scontro con la Cina.
A settembre, l’amministrazione Trump ha annunciato   l’imposizione di dazi del 10% sulla maggior parte dei prodotti cinesi inizialmente individuati per 200 miliardi di USD, con effetto praticamente immediato (vedi grafico II, pagina 04). L’ambito di applicazione di questa misura ha superato le aspettative, anche se il livello dei dazi era inferiore rispetto a quanto si temesse, limitando l’effetto negativo immediato sui mercati finanziari. Detto ciò, il dazio iniziale del 10% potrebbe salire al 25% a gennaio, se nel frattempo non sarà possibile raggiungere un compromesso. Il Presidente Trump ha inoltre minacciato di nuovo di imporre dazi sui prodotti cinesi per un valore di USD 267 miliardi in caso di ritorsioni da parte della Cina, che non hanno tardato ad arrivare. Non intravediamo una risoluzione rapida delle controversie commerciali di Stati Uniti/Cina.
Negli Stati Uniti, le elezioni di metà mandato sembrano destinate a dividere il Congresso, con i Democratici che riconquisteranno la Camera dei Rappresentanti e i Repubblicani che manterranno la maggioranza in Senato. Tuttavia, anche se i Democratici riusciranno a ottenere il controllo di entrambe le camere, non avranno i voti sufficienti per ribaltare le politiche economiche volute dal Presidente Trump: stimoli, deregulation e protezionismo. Per non parlare del fatto che i Democratici hanno pochi motivi per diventare conservativi a livello fiscale e sono tradizionalmente più allineati con le visioni protezionistiche del Presidente rispetto ad alcuni Repubblicani più vecchio stampo. Quindi, a prescindere dall’esito delle elezioni di metà mandato, negli Stati Uniti sono pochi gli ostacoli che potrebbero frapporsi alle iniziative dell’amministrazione Trump per quanto riguarda i rapporti con la Cina.  Sul fronte cinese, dubitiamo fortemente che la svalutazione della moneta sarà usata attivamente per contrastare i dazi statunitensi.
Ciò non significa impedire una certa svalutazione dello yuan rispetto al dollaro, pur mantenendo una sostanziale stabilità rispetto al paniere di valute rispetto al quale viene gestito (vedi grafico III, pagina 04). Lasciare che le forze di mercato pesino sulla valuta consentirà chiaramente di mitigare l’impatto dei dazi statunitensi sull’economia cinese. Una svalutazione sostenuta dello yuan comprometterebbe, tuttavia, gli sforzi di ribilanciamento dei policy maker cinesi a favore dell’attività nazionale, incrementerebbe i rischi del settore finanziario e genererebbe deflussi di capitali. Invece di assistere a un nuovo 2015, prevediamo quindi adeguamenti marginali e una volatilità costante. Con la riluttanza del Presidente Trump a lasciar cadere la questione e la Cina restia a fare marcia indietro, le probabilità di un accordo commerciale a breve termine sono basse, anche se nelle prossime settimane avranno luogo ulteriori round di negoziazioni.
Il nostro caso base continua a prevedere che continuerà a essere evitata una guerra commerciale vera e propria, considerati i costi economici coinvolti, ma probabilmente soltanto dopo che alcuni di tali costi avranno iniziato a materializzarsi. In altre parole, è prevedibile un’escalation del conflitto prima del raggiungimento di un compromesso definitivo. Il conseguente rallentamento, ma non crollo, della crescita di Cina e Stati Uniti peserà sulla traiettoria economica globale il prossimo anno. Per la Cina, prevediamo attualmente un incremento del PIL del 6,3% leggermente inferiore al 6,5% del 2018. E negli Stati Uniti, in cui inizieranno a svanire gli effetti dello stimolo fiscale, la crescita dovrebbe rallentare attestandosi al 2,5% circa rispetto al 3% evidenziatosi nel 2018.
Altre regioni dovrebbero, tuttavia, dimostrare una migliore tenuta. Le condizioni cicliche del Giappone appaiono stabili e sostenibili. Potremmo inoltre assistere anche a una leggera ripresa della crescita (e dell’inflazione) nell’Eurozona, considerata la robustezza della domanda interna e gli effetti positivi dello “spostamento delle esportazioni”. Perché, a prescindere dalle volontà del Presidente Trump, gli Stati Uniti semplicemente non sono in grado di soddisfare tutte le loro esigenze internamente.

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