Ciclo del credito e tassi d’interesse

A cura di Alasdair Ross, Responsabile credito investment grade, EMEA di Columbia Threadneedle Investments
In genere, quando  si parla di ciclo del credito, si pensa alla facilità con cui i mutuatari possono accedere ai prestiti e alla disponibilità dei prestatori a concedere finanziamenti. Dieci anni fa la stretta creditizia ha messo in discussione la solvibilità dei mutuatari, e i prestatori non hanno  più potuto o voluto concedere finanziamenti. I bilanci aziendali erano  eccessivamente appesantiti e il sistema bancario era sovracapitalizzato. Da allora le aziende hanno  impiegato i cash flow generati dagli utili per ridurre l’indebitamento e rafforzare i bilanci.
Di conseguenza, la qualità creditizia delle società è gradualmente migliorata e i prestatori sono divenuti più disponibili a concedere finanziamenti, alimentando così la crescita degli utili e dell’attività economica. Siamo così entrati in una fase di ripresa in cui il credito ha cominciato a fluire più liberamente, la crescita economica ha registrato un’accelerazione e la redditività è migliorata.
Quello in cui ci troviamo attualmente è l’ultimo stadio del ciclo, la fase di espansione: gli utili sono particolarmente solidi, ma vengono trasferiti agli azionisti sotto forma di dividendi, riacquisti di azioni e operazioni di fusione e acquisizione, e quindi l’indebitamento nei bilanci societari registra alcun miglioramento. Dopo di che, la dinamica degli utili dovrebbe subire un’inversione, e i prestatori diverranno nuovamente riluttanti a concedere finanziamenti.
SIAMO QUINDI VICINI ALLA FINE DEL CICLO?
Questo è il grande  dibattito che infiamma le piazze obbligazionarie e l’insieme dei mercati. Siamo fermamente convinti di trovarci nella fase finale del ciclo, alla luce di una serie di segnali tipici di questo stadio: riacquisti di azioni, attività di fusione e acquisizione, sovraperformance dei mercati azionari rispetto ai mercati del credito, e cash flow impiegati per remunerare gli azionisti. È stato un ciclo lungo, principalmente perché  la politica monetaria straordinariamente accomodante ne ha alimentato l’espansione, e negli Stati Uniti il recente stimolo fiscale ne ha favorito l’ulteriore prolungamento.
Naturalmente è difficile prevedere  esattamente quando  il ciclo si concluderà. Riteniamo che la prossima tappa  importante sarà il passaggio alla fase di contrazione, che generalmente non coincide con un periodo molto favorevole per gli attivi rischiosi; il prossimo passo sarà quindi al ribasso, e per gli investitori non sarà certo il momento  di adottare un posizionamento aggressivo sul rischio di credito nei portafogli.
QUALI SVILUPPI SI ASPET TA SUL FRONTE DEI TASSI D’INTERESSE, IN PARTICOLARE NEL REGNO UNITO, E QUALI SONO  LE IMPLICAZIONI PER  I MERCATI OBBLIGAZIONARI?
Nei mercati obbligazionari i prezzi dei titoli sono inversamente correlati al livello dei tassi d’interesse; quindi se i tassi aumentano, i prezzi diminuiscono. Sul Regno Unito incombe la grande  nube della Brexit, che resta al centro dell’attenzione della Bank of England e di Mark Carney. Indipendentemente dall’esito atteso dei negoziati sulla Brexit, l’incertezza rende  la BoE più prudente riguardo a un rialzo troppo aggressivo dei tassi d’interesse prima del 29 marzo 2019  o successivamente a tale data. Il mercato  sconta una probabilità di circa il 50% che il prossimo aumento dei tassi britannici avvenga ad agosto 2019, in netto  contrasto con lo scenario negli Stati Uniti, dove prevediamo  un nuovo rialzo a dicembre  dopo quello effettuato a settembre. In assenza di un reale decollo delle retribuzioni, mi aspetto che la BoE rimanga prudente, in attesa di maggiore chiarezza sugli sviluppi futuri.
QUINDI LE SUE ASPET TATIVE PER  IL FUTURO SONO PIUT TOSTO MODERATE?
Assolutamente. Uno degli aspetti sorprendenti della ripresa successiva al 2009  è la diminuzione della disoccupazione, che specialmente in economie come il Regno Unito e gli Stati Uniti è generalmente accompagnata da una decisa accelerazione della crescita dei salari. Negli ultimi anni si sono registrati aumenti occasionali, ai quali però ha sempre fatto seguito una diminuzione.
Prevediamo che la disoccupazione continuerà a calare e che l’inflazione aumenterà, ma quest’ultima continua ad essere frenata da quattro  importanti tendenze strutturali emerse nel corso dell’attuale ciclo: la globalizzazione, l’impatto della tecnologia, l’invecchiamento della popolazione e livelli di indebitamento persistentemente elevati in economie come il Regno Unito e gli Stati Uniti. Tutti questi fattori inibiscono l’inflazione.
NEGLI STATI UNITI IN PARTICOLARE, QUALE POTREBBE ESSERE L’IMPAT TO SUI MERCATI OBBLIGAZIONARI DI UNA CONCLUSIONE ANTICIPATA DEL MANDATO DI TRUMP?
Negli Stati Uniti il mercato  obbligazionario sembra considerare gli sgravi fiscali e la solida crescita degli utili e del PIL come un’occasionale sferzata  di energia, mentre  le aspettative d’inflazione a lungo termine, che si situano attorno  al 2%, sono rimaste invariate.
Quindi, se Donald Trump uscisse di scena, lasciando il campo  a un Partito Repubblicano più tradizionale e conservatore sul fronte fiscale, le prospettive a lungo termine per il mercato obbligazionario realmente non cambierebbero in termini di aspettative d’inflazione a lungo termine o di profilo di crescita reale dell’economia statunitense.

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